Intervista a Jole Orsenigo

L’evento Millennial Symptoms, tenutosi lo scorso febbraio presso la Casa della Cultura di Milano, ha stimolato il confronto sul tema della psicopatologia nell’Ipermodernità, attraverso l’intervento di diversi esperti. La giornata formativa ha messo in luce le radicali trasformazioni dei rapporti sociali che caratterizzano il nostro presente: assetti familiari inediti, ribaltamenti generazionali, ruoli educativi atipici e manifestazioni cliniche nuove.
Tra gli esperti Jole Orsenigo, pedagogista e clinica della formazione, che ha offerto il suo punto di vista in merito alla comunità educante, volgendo uno sguardo attento ai docenti e agli studenti. L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha richiesto un’importante riorganizzazione del sistema scolastico, imponendo nuove modalità di insegnamento e di apprendimento. Progressivamente si sono moltiplicati, nel dibattito sociale, i problemi relativi alla Didattica a Distanza e alla funzione, non solo pedagogica, della scuola in Italia. È nato così l’interesse, da parte della redazione, di incontrare Jole Orsenigo per ragionare insieme sulle conseguenze di questo ulteriore cambiamento.
Giusi Paolini: Buongiorno e ben ritrovata. Ci sembrava interessante continuare a esplorare con lei il tema della didattica, alla luce delle nuove logiche a cui si è dovuto ricorrere durante la pandemia e il lockdown. Innanzitutto, comincerei da lei, chiedendole di presentarsi ai nostri lettori per farli avvicinare alla sua prospettiva clinica e pedagogica, chiamata Clinica della Formazione.
Jole Orsenigo: Le racconterò, allora, da dove vengo. L’incontro in università con Riccardo Massa mi ha fatto scegliere in primis la pedagogia e, in seconda battuta, la filosofia. Mi sono laureata infatti con Carlo Sini e con Massa sulla Clinica della Formazione. Il tema della mia tesi era provare a dire se questa nuova pratica, che non era di ordine filosofico, potesse diventare un’occasione “etica” per la pedagogia. Erano gli anni ’90 quando mi son laureata e c’era un grande entusiasmo professionale. La nostra generazione era stata invitata a inventarsi un mestiere, soprattutto coloro che avevano scelto la strada umanistica, un po’ come succede oggi a tutti i giovani, che devono arrangiarsi utilizzando la propria creatività. A me sembrava percorribile la strada della Clinica della Formazione, dato che avevo un grande amore anche per la psicoanalisi oltre che per la filosofia. La prospettiva massiana in pedagogia era travolgente, e teneva insieme tutte le mie passioni, ma soprattutto mi sembrava un’opportunità “la clinica”: non solo poteva dare scientificità al discorso pedagogico secondo la lezione di Michel Foucault ma poteva aprire le porte a un mestiere, a una pratica, che ho poi messo in atto nella mia vita. Se posso aggiungere un’altra suggestione che mi aveva avvicinato a Massa: lui denunciava in quegli anni la fine della pedagogia. Questa “fine” determinava che i discorsi dei pedagogisti o erano attratti dalla una filosofia a buon mercato o erano tecnici nel senso della mera didattica, non tanto in relazione agli studi sulla valutazione e programmazione, quanto alla dimensione meramente istruttiva. Lui si scagliava contro entrambi questi estremi: contro chi sta tra le nuvole e parla soltanto e chi invece crede di poter ridurre l’educazione a passaggio di informazioni, a comunicazione organizzata a tavolino.
G.P: La vostra riflessione rappresenta dunque un tentativo di “stare nel mezzo”?
J.O: Sì, ci sono delle mosse che utilizziamo per non cedere a questi estremi. La prima mossa è quella di mettere in discorso la pedagogia attraverso un testo. Di solito quando si parla di educazione si fanno riflessioni, giudizi, auspici… invece nei tavoli di lavoro di Clinica della Formazione proviamo a costruire un testo che sia una breve narrazione (episodio), la composizione di un disegno, la costruzione di un paesaggio tridimensionale (plastico) o un lavoro di tipo teatrale col corpo. Su questo testo operiamo almeno quattro tipi di esercitazioni o “affondi” ovvero cerchiamo di agganciare l’esperienza a “dati” (referenzialità), quindi procediamo in gruppo a un’operazione di categorizzazione per capire le idee pedagogiche che quei dati veicolano. Il lavoro svolto, proprio perché scritto, disegnato, agito… rivela, se osservato direttamente, la pedagogia implicita in quel testo. Facciamo la stessa cosa anche dal punto di vista degli affetti. Poi mettiamo in asse questi affondi (narrativo, cognitivo e affettivo) per capire qual è l’elemento metodologico latente, la struttura, che tiene insieme tutti questi elementi, cioè che produce gli effetti educativi osservati. Noi chiamiamo “elaborazione del dispositivo complesso” questo lavoro collettivo sui testi dei membri del gruppo coinvolti.
G.P: Mi sembra di capire che quindi sia importante anzitutto l’atto, la presenza di un corpo in azione, che fa la relazione.
J.O: Assolutamente. Sono molto affezionata a un testo del 1997 di Riccardo Massa, Cambiare la scuola, dove suggeriva l’opportunità che questa si debba rimettere insieme a partire dal gesto, dalla parola e dal corpo; in sintesi dall’avventura del conoscere. Il “corpo” per Massa non è solo l’evidente fisicità troppo spesso dimenticata e per questo motivo sfruttata nelle nostre aule oppure la necessaria e inevitabile socializzazione che la scuola produce come istituzione disciplinare o di police (funzione d’ordine pubblico), ma presenza, desiderio incarnato. Da questo punto di vista anche un libro può essere riscoperto come parola viva se viene letto, recitato, ascoltato o studiato in quando dotato di senso per me.

G.P: Nel momento attuale, in cui la dimensione spaziale e corporea è inevitabilmente alterata dal mezzo virtuale, quali effetti può subire la didattica e dunque l’atto dell’educare?
J.O: Al momento la mia percezione è quella di una scuola davvero “inceppata”, utilizzando una metafora che viene da Kafka quando, in un suo racconto breve, descrive uno strumento di tortura che continua a funzionare contro ogni logica di sensatezza facendo soffrire gratuitamente. In realtà, credo che nemmeno nella scuola “in presenza” gli studenti si divertissero a studiare né gli insegnanti a fare lezione: l’attuale assetto prevede un numero così elevato di ore di lezione e una quantità così pressante di informazioni che è quasi impossibile trarre piacere dall’esperienza scolastica. Al massimo è possibile goderne in modo quasi perverso oppure cedere sia necessario il farne a meno, cioè rinunciare o rifiutare quel tipo di studio. Il dispositivo disciplinare di cui ha parlato Foucault, corrispondeva a una società, quella Moderna, che è finita. Oggi, come ha chiarito con successo Bauman, la società non è “solida”, ordinata, tale da assicurarci un posto (in tutti i senti del termine) fisso. Viviamo invece in una società dove tutto scorre, passa, transita e va. La macchina scolastica è rimasta indietro: non appartiene (più) all’esperienza che viviamo. Soprattutto ora in tempi di distanziamento e isolamento. Secondo me, questa esperienza di scuola da remoto, così obbligata e coatta, ha dato uno scossone alle pratiche scolastiche tradizionali, sclerotizzate cui siamo abituati, almeno in due modi diversi. Per un verso, ha reso ancora ancor più infernale il meccanismo scolastico, tutto cognitivo e mirato ad apprendere informazioni. Stare tanto tempo collegati sulle piattaforme altera o impedisce infatti l’impegno di un corpo: relazione, fisicità e affetti. D’altra parte, questo scossone potrebbe avere un contraccolpo positivo: queste nuove tecnologie consentono quella che Ivan Illich avrebbe chiamato una nuova forma di convivialità, un nuovo modo per stare insieme. C’è quindi del positivo, ma andrebbe pensato. Non sappiamo ancora quali effetti ha prodotto l’alfabeto e l’alfabetizzazione sulla nostra esperienza, figuriamoci se siamo in grado di capire subito come i nuovi media ci cambieranno. Per esempio, ho passato serate bellissime partecipando a incontri di CINELOGO su Zoom anche con persone sconosciute, in una convivialità davvero impensabile altrimenti. Direi che abbiamo vissuto insieme un’esperienza, in termini pedagogici, non replicabile in presenza: prossimità nella distanza, comodità della fruizione degli spezzoni, orario di visione… In termini molto semplici, c’è del buono e del cattivo.
G.P: Ha messo in evidenza molti aspetti. Sicuramente occorre avere fiducia nella capacità e nella creatività dell’educatore di servirsi degli strumenti che ha a disposizione. Altro punto interessante è la costrizione dei corpi in tempi e ritmi scolastici definiti. Durante il lockdown il corpo è stato vincolato alle mura di casa, dove paradossalmente ha potuto godere di maggiore libertà di movimento rispetto al banco in aula. Approfondendo la questione del corpo e la metafora del teatro di cui parlavamo prima, il docente può essere visto come un attore che mette in scena e crea le condizioni affinché qualcosa avvenga grazie alla relazione. Oggi questi aspetti che paiono sacrificati, secondo lei possono essere re-inventati?
J.O: Si, mi trovo molto d’accordo con quello che lei dice rispetto al banco, perché il banco è già una “tecnologia” e molto costrittiva. Il banco è come una “cella”, Foucault l’ha reso evidente: offre un posto ma chiede di sapersi controllare (di essere disciplinati, com-posti) nell’organizzazione che ci ospita. Funziona allo stesso modo il numero di matricola: ci dà un nome, un rango, un’esistenza ma solo dentro il sistema. C’è anche del positivo in questo: si crea una soggettività che potenzialmente potrebbe anche separarsi da quel grande Altro che l’ha messa al mondo. La generazione precedente alla mia doveva mettere le manine sul banco, la nostra ha sdoganato Il sottobanco (Massa, Cerioli, 1999), la prossima dovrebbe inventare altre strategie di resistenza. Ricordo di aver tenuto un seminario in Bicocca sul tema del limite in Jaspers, in un’aula senza cattedra e senza banchi. È stato un momento interessantissimo perché, anche se eravamo seduti per terra con i libri, in questo setting inedito (anche necessario: l’università era in via di organizzazione e non tutte le aule erano attrezzate) seppur scomodo. È trattato di un teatro didattico decisamente “povero” (Grotowski, 1968) ma potente. Quanto al docente, è figura centrale ma occorre ricordare che non è in virtù “di ciò che sa” bensì “di ciò che non sa e di cui è ancora appassionato” che potrà funzionare come educatore e non semplice istruttore. La programmazione di una lezione è paragonabile alla progettazione di un lavoro teatrale: il timing per esempio, decidere cosa fare prima e cosa fare dopo, quanto spazio lasciare agli studenti e quanto trattenere per sé, come entrare e uscire di scena, che cosa fare sulla o fuori scena… Dovremmo usare questa creatività con tutti i media che oggi abbiamo a disposizione; anche quelli antichi e apparentemente superati. È in questo modo che si può realizzare ancora l’incontro tra generazioni. La scuola non è del maestro o dell’allievo, non vince l’uno o l’altro: le due parti si incontrano nella distanza, favoriti dalla asimmetria.
G.P: Quindi la scuola, l’esperienza educativa in senso ampio può essere definita un’esperienza di desiderio, declinata nella creatività, in cui l’incontro tra le due parti avviene nell’asimmetria?
J.O: Sì. Gli allievi sono oggetto di attenzione, non d’adescamento. Qui vale il Mito della muta dell’amato che Jacques Lacan illustra nel Seminario VIII (pp.57-61). In esordio evocando l’amore pederastico della Classicità – l’amore della scuola (p. 37) – ricorda le posizioni differenti dell’amante, l’adulto, e dell’amato, il giovane. L’amore è una metafora, dice. Si tratta di una sostituzione: là dove c’era un oggetto d’amore e di attenzioni (il ragazzo) deve comparire un soggetto di desiderio, un nuovo amante. Tra i due, continua, non c’è simmetria ma sostituzione. Poi lavora per immagini: la mano (l’adulto) si tende verso il frutto (il giovane), verso il fiore che sboccia o il ceppo che avvampa. Quel tendersi, attirare, attizzare sono solidali con la maturazione del frutto, la bellezza del fiore e la vampata del ceppo. Ma – sottolinea Lacan – se al posto del frutto, fiore, ceppo “esce una mano che si tende incontro alla vostra (p. 59) […] ecco, allora che si produce l’amore”. È questo il miracolo, dico io, dell’educazione in quanto relazione.

Quando dall’altra parte appare un altro soggetto (di desiderio), l’educazione è finita: ti devi ritirare. Quando l’adolescente diventa adulto, allora occorre giocare alla pari, non prima. Per costruire le condizioni affinché ciò avvenga, il modello della didattica come mero passaggio di informazioni, è davvero insufficiente se non forviante, come – secondo me – una certa retorica del mettere al centro dell’apprendimento il soggetto. Certo, l’educazione non è (solo) addestramento, cioè allineamento. Se c’è educazione “vera”, c’è anche la possibilità di disaccordo, dello scarto. C’è, finalmente, separazione e, di conseguenza, autonomia o come dice bene G. Alemàn solitudine comune (2017).
G.P: È La disparità di cui parlava prima, che permette effettivamente un movimento dialettico. Proseguendo con la riflessione, a quali articolazioni si presta la fusione obbligata tra luogo educativo scolastico e familiare a cui sono stati sottoposti i ragazzi nel lockdown?

J.O: C’è educazione e c’è possibilità di esercitare da adulti, responsabili e appassionati, il ruolo del mentore nei confronti degli adolescenti solo in un ambiente ultra-scolastico e ultra-familiare. Pensiamo allo Scoutismo o allo sport, che funzionano (quasi sempre) perché si tratta di fare-esperienza fuori-casa e fuori-scuola, al di là della familiarità domestica e della routine scolastica, cioè si tratta di vivere delle avventure. Questo non toglie che l’avventura possa accadere anche in famiglia, in casa o a scuola: sto pensando a un certo uso di Internet. Gli adolescenti sono capacissimi di ritagliarsi spazi e tempi di evasione dal familiare e dallo scolastico, ma in quei luoghi a volte non ci sono (anche) adulti credibili a fare compagnia. Penso che le nuove generazioni siano pedagogicamente piuttosto “sature”: frequentano e hanno frequentato fin da bambini mille corsi differenti. Danza, musica, canto, pallacanestro… appena escono da scuola devono entrare in un corso di formazione. Quando finisce la scuola poi sarà sul lavoro che dovranno fare altra formazione. Trovo che questa necessità, molto diffusa e francamente obbligatoria, della formazione permanente, continua… non permetta una autentica separazione. In tutto questo impegno formativo, quando un giovane può provare piacere? Trovare il senso dell’avventura che sta facendo? Un docente dovrebbe avere il coraggio di entrare in aula e dire, per esempio, “per un’ora non facciamo niente”. Si tratterebbe di provare a “fare-vuoto”: un’esperienza capace di valorizzare tutto il pieno in cui siamo attualmente presi.
G.P: Questo consente di confrontarsi con ciò che si è e con il proprio desiderio, che a volte emerge da spazi vuoti, ma in presenza di un adulto che non si limita a immettere qualcosa dall’esterno.

J.O: Forse sulle piattaforme della Didattica a Distanza gli studenti fanno bene a togliere video e audio. On line non è sempre possibile sapere che cosa accada dall’altra parte, ma questo succedeva anche in aula: quanto i ragazzi sono presenti mentalmente quando sorridono, annuiscono, assecondano il docente e quanto lo sono quando non si fanno vedere o non sono lì fisicamente ma pensano. Si tratta di abitare quel bilico, di cui parlava Lacan, tra una passività totale e quella che prelude a un’attività di cui, come educatori, non dobbiamo necessariamente essere testimoni. È possibile che siano molto più presenti quando fanno finta di non esserci piuttosto che quando stanno in prima fila e fanno continuamente domande. Secondo me noi adulti dovremmo avere una certa capacità di attesa verso questi comportamenti, e lasciarli essere. Certo, c’è qualcuno che ci marcerà, però anche la noia può essere produttiva.
G.P: Stavo pensando alle figure genitoriali. Secondo Lei, in quanto educatori, potrebbero porsi anche come figure d’esempio e prestare le proprie esperienze?
J.O: Credo che una posizione inevitabile per i genitori sia quella dell’ “essere d’esempio”, sapendo bene che l’educazione passa sia attraverso ciò che si fa, ma anche ciò che non si fa. Come dire: ogni genitore deve accettare che “sbaglierà” inevitabilmente, perché è sempre sulla scena anche quando non vorrebbe. A questo livello le prediche sono del tutto ininfluenti: sarai ricordato/a per quello che davvero fai. Un’educazione ben-fatta richiama metaforicamente la funzione della punteggiatura, che non interviene sempre ma ogni tanto, quando necessario. Il silenzio è esso stesso una forma di punteggiatura. C’è una cosa curiosa che mi è capitata tempo fa: in un’aula di futuri educatori professionali ho chiesto se i genitori debbano essere considerati anche educatori e, con mia grande meraviglia, quasi tutti hanno risposto no. Quindi la famiglia oggi è considerata sicuramente un luogo degli affetti, uno spazio protetto, ma non è più un luogo educativo e un’agenzia formativa primaria. Forse adesso è rimasta solo la scuola come agenzia formativa secondaria.
G: Sta dicendo che essere d’esempio non vuol dire prestarsi solo come modello, bensì creare occasioni in cui giocarsela con l’altro e imparare a stare al mondo?
J.O: Sì, penso che i giovani abbiano bisogno di questa “sponda”, che non vuol dire essere perfetti o non sbagliare, ma sapersi esporre. Testimoniare. Suggerisco “un incontrarsi lì” senza troppe finzioni, né false pretese di autenticità. Questo implica il “posizionarsi”, per esempio, rivelando chi siano stati i propri mentori, i propri riferimenti culturali, valori, chiedendo all’altro di fare altrettanto anche se spesso non lo ritiene utile.
G.P: Ma serve per la vita!

J.O: E anche per i destini della pedagogia. Mi piace militare per le politiche culturali della pedagogia; un educatore non deve certo parlare come un libro stampato, ma avere qualche riferimento discorsivo, un lessico specifico. Esiste una originalità del discorso pedagogico che deve essere riconosciuta e valorizzata.
G.P: Abbiamo parlato di capacità e creatività educativa, nonché della possibilità di re-inventare e costruire il lavoro pedagogico alla luce del potenziale dei media. Secondo lei, con quali risorse la situazione potrà ripristinarsi dopo l’emergenza? Di quali criticità dobbiamo tener conto?
J.O: Ho fantasticato, in questo periodo, sulla possibilità che la scuola possa riprendere meglio di prima. Ho sentito molti insegnanti ingaggiati dalla sfida della didattica a distanza, e penso che abbiano fatto esperienza dello smontare e rimontare il fare-scuola. La passione profusa generosamente anche se in modo ineguale nel corpo docenti, li potrà aiutare tutti. Penso che in Italia l’aspetto più difficile sia togliere dalla mente degli adulti l’idea che la scuola sia un parcheggio, come si diceva negli anni ’70. Certo gli adulti hanno bisogno di sapere dove sono i loro figli mentre sono impegnati, tutti abbiamo bisogno di sapere che i ragazzi sono impegnati durante il giorno e non “a spasso”, ma la scuola non è (solo) un asilo. Non svolge solo una funzione d’ordine pubblico (police), a scuola si tratta di educare oltre che istruire. D’altra parte, un rischio ulteriore deriva da quei docenti che pensano di dover scegliere, come i cacciatori di teste, chi è più o meno bravo in qualcosa, chi ha più o meno talento, infarcendo di informazioni se stessi e gli altri. Invece la scuola più che al mondo del lavoro serve alla vita di ognuno di noi, alla serena soddisfazione che si può avere esistendo. Ecco perché il programma che non si riesce mai a finire, implica una scelta di progettazione e programmazione da parte del docente, un taglio partigiano di cui occorre prendersi la responsabilità (come la legge italiana prevede). Così gli esami, i test, i compiti in classe… troppo spesso si dimentica che segnano una soglia, rappresentano una iniziazione, una prova e non solo misurano una performance individuale, cioè selezionano e qualificano. L’impegno educativo degli adulti a scuola (genitori, insegnato, educatori) si realizza in un incontro, in una danza, attorno alla domanda di sapere tra vecchie e nuove generazioni, e non può ridursi a cattedre, voti e pagelle. I francesi usano una bella espressione “Rapport au savoir” per evocare la curiosità che ci lega alla vita. Nelle nostre aule, grazie al sapere disciplinare, sarebbe opportuno toccare, anche solo talvolta, la domanda inestinguibile in merito al sapere dello stare al mondo. Ognuno ne è implicato, infatti.

G.P: Grazie del tempo che ci ha dedicato!

Nota biografica su Michel Foucault
Nasce a Poitiers (Francia) nel 1926.
Il padre, il nonno e il bisnonno erano medici; orgogliosi della loro tradizione di famiglia, molto religiosa. Già a undici anni sconcerta il padre dichiarando di voler diventare uno storico. Nel 1940 viene mandato in collegio. Durante gli anni dell’università Foucault appare come un ragazzo solitario, stravagante ed eccentrico: studia psicologia e filosofia sotto la guida di Maurice Merleau-Ponty, Jean Hyppolite e Louis Althusser. Omosessuale, vive con disagio questa sua condizione: nel giro di pochi anni tenta per tre volte il suicidio, lasciandosi anche tentare dall’alcol. Riluttante, si mette per qualche tempo in analisi.
Gli incarichi culturali portano Foucault a lunghi soggiorni all’estero, prima in Svezia, poi in Polonia e infine in Germania. Alla fine dello stesso anno conosce Daniel Defert, un giovane studente che rimarrà suo compagno per il resto della vita. Per rimanergli vicino durante il servizio militare, Foucault rinuncia all’occasione a lungo attesa di trasferirsi in Giappone, accettando invece un incarico a Tunisi, dove si trasferirà. Sempre nel 1966 cura con Deleuze l’edizione francese dell’opera omnia di Nietzsche e pubblica Le parole e le cose, il cui enorme successo gli procura una posizione di primo piano tra i pensatori del suo tempo. Foucault torna a Parigi alla fine degli anni ’60, nel periodo delle contestazioni studentesche, che appoggia finendo anche in carcere. Nel 1971 ottiene l’incarico cui aspirava da tempo, una cattedra al Collège de France, la più prestigiosa istituzione culturale francese. Qui Michel Foucault terrà corsi di Storia dei Sistemi di Pensiero fino all’anno della sua morte. Nel 1975, mentre la sua opera Sorvegliare e punire: la nascita della prigione conosce una larga circolazione internazionale, viene invitato per la prima volta da Leo Bersani in California a Berkeley, università che frequenterà spesso negli anni successivi. Muore in ospedale a Parigi nel 1984.
Nota biografica su Riccardo Massa
Riccardo Massa è stato filosofo dell’educazione e pedagogista coraggioso, capace di affrontare in maniera spregiudicata le domande dell’educazione e i problemi del sapere pedagogico.
Vercellese di nascita (8 Maggio 1945), milanese di adozione (muore a Milano il 1 Gennaio 2000), è riuscito a compiere il suo progetto sociale e culturale riunendo il Comitato ordinatore della seconda Università Statale di Milano, chiamato a istituire la Facoltà di Scienze della Formazione alla Bicocca. Qui, come primo preside, si è impegnato affinché la pedagogia potesse confrontarsi radicalmente con tutti gli altri saperi senza rinunciare a far valere una propria specificità di sguardo. L’educazione, infatti, richiede una rete complessa di interpretazioni, capace di tenere insieme pluralismo, tolleranza della conoscenza e studio della propria identità pedagogica. Formatosi alla scuola dei grandi filosofi torinesi degli anni ‘50 (Nicola Abbagnano, Pietro Chiodi e di Luigi Pareyson), ma anche e parallelamente alla vita del forte mondo scout, è sempre riuscito a coniugare una teoria compiuta e rigorosa dell’esperienza educativa con un sapere tecnicamente efficace. Così, docente nelle Università di Cosenza, Milano e del Piemonte Orientale, e poi direttore dell’Istituto di Pedagogia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano, ha sempre lavorato anche nei servizi sociali e sanitari del comune e della provincia di Vercelli, oltre a essere stato direttore dell’Ospizio dei Poveri nella stessa città. Protagonista della vita intellettuale milanese e non solo, dal palcoscenico della Casa della Cultura di Milano, negli anni ’80 ha provocatoriamente dichiarato la fine della pedagogia nella cultura contemporanea, per permettere una svolta nel modo di pensare e trattare l’educazione. Tale denuncia, tutt’altro che nichilista, esprimeva invece una critica volta a fondare la pedagogia come scienza. Il concetto di dispositivo educativo, ripreso dallo studio appassionato di Michel Foucault, apriva la possibilità di una indagine teorica, empirica e clinica. Da ricordare, non solo i testi che l’hanno reso celebre nel dibattito culturale italiano, ma anche le ricerche pedagogiche promosse dal Centro per l’Innovazione Educativa del Comune di Milano e dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale per conto dell’Unione Europea e del Ministero del Lavoro; infine, l’azione di formazione, consulenza e supervisione rivolta a educatori, insegnanti, formatori, genitori e soggetti in formazione. Senior Fellow nella School of Education dell’Università del Michigan e dell’Università della California, membro del comitato scientifico di organizzazioni di ricerca e di riviste specializzate di rilievo internazionale, ha tentato di sdoganare la pedagogia italiana dal suo provincialismo. Ancora oggi, la sua opera pedagogica ci sfida, pone dei problemi e inquieta. Questo, forse, chiede di continuare a studiarne il discorso, per continuare a percorrere la pista da lui aperta.