I figli della porta accanto. La “certezza” del ritiro sociale (1)

  1. Questo lavoro raccoglie stralci di sedute con adolescenti e giovani adulti ritirati sociali che l’équipe clinica dell’Istituto di Psicosomatica Integrata di Milano e dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) e Cyberbullismo (Di.Te.) – sede di Milano, ha preso in carico in questi anni. Nel 2022, la Radiotelevisione Italiana (RAI) ci ha chiamato in qualità di consulenti per la realizzazione di un cortometraggio all’interno di un format intitolato “Drugs” di otto episodi sul tema delle vecchie e nuove dipendenze, tra le quali quella tecnologica. La sceneggiatura di quest’ultima, intitolata “I figli della porta accanto”, reperibile sulla piattaforma RAIPLAY – https://www.raiplay.it/programmi/drugs – è costruita sulla base delle storie riportate in questo articolo. 

di Simone Matteo Russo

PSICOLOGIA PSICOSOMATICA – 46 – PUBBLICATO IL 31 OTTOBRE 2023

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Marco, 15 anni, ritirato in casa da circa due anni, si descrive così: “Ho lasciato la scuola due anni fa. A scuola i prof. mi guardavano seri e mi dicevano che ero distratto, superficiale, inaffidabile, trascurato e poco puntuale. La stessa cosa me la dicono i miei genitori… Ma che cazzo ne sanno loro! Loro non lo sanno che ogni notte ho appuntamenti e missioni con compagni di molti team sparsi per il mondo, su tutti i fusi orari. E non sgarro di un minuto, perché ciò rovinerebbe la mia reputazione. Non c’è niente di più terribile che perdere la fiducia del team! Sono come un soldato in missione e so che gli altri contano su di me. Lì non sento la stanchezza perché la gente ha bisogno di me!”. 

Chi lo avrebbe mai immaginato? Isolato nel mondo reale, nella realtà virtuale Marco è attivo ed efficiente, immerso in uno scenario di guerra collettivo, così come molti adolescenti e giovani adulti ritirati incontrati in questi anni.

Come adulti, tuttavia, prima di affrettarci nel cercare di fornire risposte su aspetti operativi relativi al “che fare”, dovremmo innanzitutto porci delle domande che aiutino a comprendere questi scenari inediti. Per esempio, chiederci: quale guerra stanno combattendo nelle loro stanze, ragazzi come Marco? Chi sono i mandanti? Chi è il nemico da sconfiggere? Perché si ritirano e poi iniziano a combattere? 

In seduta, Luca chiarisce così le sue motivazioni: “Nella Gilda(2) mi sento capito, con i miei invece è una continua battaglia persa. Con loro ho perso le speranze”,aggiungendo amaramente che “sono proprio quelli che ti stanno più vicino a non capirti affatto!”. 

I ritirati sociali sono “i figli della porta accanto”.

Il senso d’incomprensione e la perdita di speranza interrogano non solo l’ambiente affettivo-relazionale nel quale questi ragazzi e ragazze si ritirano, ma anche una condizione sociale che non riesce a essere metabolizzata e, di conseguenza, interiorizzata.

IL PATTERN RELAZIONALE PRIMARIO NELL’ERA DELLA DEL DIGITALE

Fino ad ora, gli studi che si sono occupati dell’eziopatogenesi della psicopatologia, ad esempio quella dei disturbi di personalità, ha affrontato esclusivamente il tema della fenomenologia all’interno della relazione madre–bambino, senza tuttavia contestualizzarla nel cambiamento del contesto sociale degli ultimi trent’anni. In letteratura, infatti, è piuttosto raro vedere esplorata l’influenza della matrice socio-culturale e dei processi di digitalizzazione di massa sul pattern relazionale primario.

La natura intrinseca delle problematiche insite nel ritiro sociale ci obbliga a colmare questa lacuna e ad allargare il campo d’osservazione alla globalità della mutazione sociale e di conseguenza clinica, determinata dalla rivoluzione digitale.

In Adolescenti Digitalmente Modificati (Scognamiglio & Russo, 2018), abbiamo evidenziato che gli attuali contenitori sociali non sono più in grado di difendere l’individuo dall’impatto con gli inevitabili traumatismi provenienti dal contesto esterno, risultando così “bucati”. È la carenza di sistemi simbolici (Stato, Chiesa, Scuola, Famiglia, ecc…), quelli che Kaës definisce garanti metasociali(3) (Kaës, 2005), ormai privi della forza sia di proteggere, che di con-tenere, cioè di «tenere insieme». La perdita del collante sociale produce un traumatismo generalizzato (Scognamiglio & Russo, 2018) con profonde ripercussioni non solo sulle nostre menti, ma anche e soprattutto sui nostri corpi, che si mantengono in stati di ansia e allerta costante, soprattutto nelle nuove generazioni.

In Il narcisismo del You (Scognamiglio, Russo e Fumagalli, 2024) siamo andati oltre: nella società del post-human, si aggiunge una diversa forma di traumatismo, quello digitalmente modificato: insidioso, penetrativo, con un’azione di svuotamento dall’interno. Una delle modifiche apportate dall’avvento della digitalizzazione di massa consiste nel depotenziamento dell’impatto con l’evento traumatico: non venendo più percepito l’urto con l’input stressogeno, questo tipo di traumatismo non elicita difese. Viviamo così stati dissociativi senza doverci difendere da nulla, perché il sistema digitale ha il potere di silenziare la soggettività.

È la condizione che vive la grande maggioranza dei ritirati, nella quale le preoccupazioni e le incertezze sociali sono isolate e anestetizzate dall’Altro digitale che, contemporaneamente, assorbe gli investimenti affettivo-relazionali. La Rete permette, infatti, di “staccare” dagli eventi stressanti e/o traumatici consentendo, in primis ai nostri corpi, di alleviare il disagio senza passare attraverso l’incerta rete delle relazioni. 

IL WEB COME UNICO “ALTRO” POSSIBILE

Ad oggi, quando stiamo male, la Rete è l’unico altro che dà la certezza di esserci!

Tutto questo cambia la consistenza del malessere e la competenza soggettiva per poterlo articolare e regolare. In questo inesorabile processo di digitalizzazione di massa, stiamo perdendo la capacità di tollerare l’attesa di una risposta, il tempo del dubbio e della riflessione, la frustrazione di un riscontro non rispecchiante, la non immediatezza del miglioramento dello stato corporeo. Ecco come la sofferenza soggettiva si trasforma in disagio digitalmente modificato a matrice corporea, difficilmente contattabile e regolabile in contesti esclusivamente psicologici. 

In questo scenario, viene così alimentato un circolo vizioso paradossale: nonostante nella nostra società occidentale siano aumentate le comodità e, più in generale, gli stati di comfort materiali, viviamo costantemente condizioni di rischio, precarietà e incertezza sociale.

Nell’epoca del post-human, le angosciose incertezze economiche, ecologiche e, più in generale, il rischio come orizzonte globale dentro cui, come organizzazioni e come singoli, ci muoviamo, creano condizioni predisponenti alla crescita dei futuri ritirati sociali.

La prima è il mutamento della percezione della società stessa con l’aumento della paura del “fuori” e, di conseguenza, del senso di sfiducia nell’altro, al di là di ciò che mostrano i dati oggettivi. 

Se il fuori fa paura, il “dentro” può invece fungere da illusorio luogo rassicurante: anziché uscire in cortile o in strada, in un mondo pieno di pericoli e di malintenzionati, “meglio stare a casa al sicuro”. È questo il messaggio che i genitori di Marco gli hanno trasmesso, anche prima dell’epidemia di Covid che, indubbiamente, ha potenziato ulteriormente una tendenza evitante, peraltro già diffusa tra i più giovani.

È in questo scenario di guerra sociale percepita che, per esempio, videogiocare nella propria cameretta può rivelarsi l’ambiente idoneo, non solo per rassicurare le preoccupazioni genitoriali sul “fuori”, ma anche per soddisfare le necessità della crescita. 

In particolare, il mondo dei videogiochi si eleva a habitat virtureale (Russo, 2022), tra il dentro e il fuori, che:

  • protegge dalle paure e dalle difficoltà nel confrontarsi col pericolo esterno;
  • consente di esprimere l’aggressività, la grandiosità e mettersi alla prova col rischio; 
  • permette di manifestare la propria affettività e di coltivare i contatti sociali, con uno schermo emotivo protettivo; 
  • consente di sperimentare delle possibilità di evoluzione, magari attraverso l’avatar del videogioco preferito;
  • spesso, come nel caso di Luca, preserva un senso di appartenenza con il proprio gruppo di gioco.

In seduta, Marco racconta di aver trovato on lineun altro per cui sentire il coinvolgimento di essere in battaglia insieme!”. Sforzarsi, lottare, avere qualcuno per cui sentirsi importante e meritevole della sua lealtà, disponibilità, puntualità: ecco l’esperienza dello scambio e del sacrificio che i genitori, presi dalle loro fatiche e responsabilità, sono riusciti solo a spiegare con parole “vuote” di un’esperienza mai veramente condivisa. 

Non avendo interiorizzato le “istruzioni per l’uso”, Marco non sa che farsene della vita reale tanto decantata dai genitori: “Non ci vedo niente di così emozionante, niente di così importante nel mondo vero di cui parlano i miei. Cos’ha di così tanto più vero del mio? Di vero, ha solo che è più squallido e vuoto”.

Dalle loro stanze “rifugio”, i ritirati sociali mantengono una visione lucida e impietosa sulle presunte certezze dogmatiche e para-angoscia fornite dagli adulti di riferimento: “Bisogna continuare a studiare; solo così si può trovare un lavoro!” ripetono i genitori a Marco, conoscendo tuttavia ben poco dei suoi interessi e delle sue passioni. In seduta, Luca inconsapevolmente mette a nudo le supposte sicurezze di una società che non riesce a fermarsi sull’incertezza e sulla precarietà che la riguardano: “A cosa mi stava preparando la scuola? Non è certo là che ho imparato ad assemblare un PC a raffreddamento liquido con 32 giga di ram e una scheda grafica da 10 giga: ho fatto tutto da solo con le mie manine, un cacciavite e un tutorial. Se aspettavo la scuola…”. 

Nella nostra esperienza clinica, in quasi tutti i casi di adolescenti e giovani adulti che abbiamo incontrato, dal momento del ritiro alla domanda d’aiuto passano in media tre anni e due bocciature o diversi esami universitari evitati. 

Perché si perde tutto questo tempo prima di intervenire? 

Una delle ragioni è che spesso i segnali d’allarme di un prossimo ritiro sociale sfuggono a uno sguardo superficiale, passando inosservati nella loro gravità agli occhi dei genitori e, non di rado, anche dei clinici. Vi sono fenomeni di evitamento mascherato dall’altro in carne e ossa che sono spesso scambiati per manifestazioni di efficientismo tecnologico e non come rimedi all’incapacità di regolare l’angoscia. Ecco alcuni esempi. 

Luca, 24 anni, acquistava da anni ormai solo online. Solo in seduta riesce a confidare che era terrorizzato dalla commessa che poteva fare domande, insistere e forzarlo all’acquisto. Andava in ansia e comprava anche se non era convinto della scelta. 

Flavio, 21 anni, invece, faceva un uso esclusivo di messaggi vocali. Quando riceveva una chiamata, chiudeva e aspettava il messaggio. Riuscirà a dire che questa era una vera e propria strategia ansioliticaper tenere l’altro sotto controllo e non rischiare di farsi trovare impreparato. 

Gianluca, 20 anni, prima di ritirarsi, si allenava in casa, rifiutando categoricamente di andare in palestra. Fin dall’inizio, non ha mai accettato i consigli di nessuno, tranne che del “suo” personal trainer australiano che segue ancora oggi quotidianamente on line su YouTube.

E, infine, Giorgia di 15 anni, che prima del ritiro riusciva a svolgere i compiti quotidiani solo sostenendosi con un accompagnamento di selezionate “basi sicure” musicali: per svegliarsi, per andare in bagno a lavarsi, per uscire di casa, per dormire. I genitori hanno sempre visto in lei una “normale adolescente maniaca della musica” e non una figlia incapace di regolare dentro di sé un vuoto angoscioso. 

Come in Giorgia, siamo soliti ritrovare nei ritirati sociali l’utilizzo di rituali con una funzione motivazionale a cui aggrapparsi in mancanza di una presenza interna rassicurante.

In tutti questi casi, nel vuoto lasciato dall’Altro reale, l’Altro digitale ha preso spazio diventando il vero caregiver, cioè la figura d’accudimento delle nuove generazioni, in sostituzione dei genitori e, più in generale, dell’adulto nella funzione di argine al disagio e di accompagnamento alla crescita. Dalle loro stanze, la categoria dei ritirati sociali mostra più di altre che, per poter “stare bene” oggi, non c’è più la necessità di passare dalla relazione con l’altro in carne e ossa.

All’incertezza sociale, oltre che affettiva e relazionale, questi ragazzi e ragazze preferiscono rivolgersi alla certa onnipresenza digitale per evitare un’implicazione soggettiva con l’angoscioso mondo di “fuori”. 

Il ritiro diventa così la certezza su cui possono contare!

Una delle condizioni ricorrenti che abbiamo rilevato nel lavoro con le famiglie dei ritirati sociali è la delega all’uso eccessivamente precoce e frequente della tecnologia come strumento per abbassare stati di tensione, riempire momenti di vuoto, distrarre da fonti di stress o da possibili discussioni nella condivisione di esperienze (viaggi in macchina, cene al ristorante, ecc…). Il ricorso continuativo alla comodità digitale non consente però la costruzione interna di un seeking (Panksepp, 2014), cioè la capacità di muoversi verso l’altro per cercare aiuto nei momenti di incertezza affettiva e relazionale. 

INCERTEZZA SOCIALE, INCERTEZZA DIAGNOSTICA

Nel quadro di questa trasformazione sociale, la categoria dei ritirati sociali, inoltre, ci pone di fronte a inediti interrogativi sulla conduzione della cura e a una difficile decifrazione diagnostica rispetto a una clinica più tradizionale sulla quale ci siamo formati come psicologi e psicoterapeuti, in particolare, quella dello spettro dei Disturbi di Personalità.

L’incertezza sociale si trasforma, dunque, anche in incertezza diagnostica. 

A livello fenomenologico, nel lavoro con la clinica digitalmente modificata è possibile individuare ricorrenti problematicità che proverò a ricostruire, a partire dalle parole dei pazienti. 

Luigi, 18enne, all’ennesima sollecitazione dei genitori a riflettere circa le difficoltà di alzarsi dal letto al mattino che si ripresentano quotidianamente da più di un anno, risponde ancora una volta prontamente che lui sa meglio di chiunque altro cosa fare e che vuole riprovarci nuovamente da solo: “Sì, c’ho pensato, non è andata bene. Ma lasciatemi fare! Sono convinto di farcela”

La conclusione della scena, anch’essa sempre uguale a se stessa, vede i genitori di Luigi lasciarsi convincere dall’assertività convinta del figlio: “Quando riflette e si prende le sue responsabilità, gli diamo fiducia”.  

Sarà lo stesso Luigi, mesi dopo in seduta, a chiarire inconsapevolmente il fraintendimento nel quale i suoi genitori continuano a perdersi: “Loro insistono con «riflettici», «cerca di capire questo…, cerca di capire quello…». Quello che loro non capiscono è che non mi serve a niente rifletterci. E poi, quando ci provo, mi sale una tensione incontrollabile e non riesco a pensare”.

Le parole di Luigi chiariscono come spesso l’adulto tenda a confondere responsabilità con reattività. 

RESPONSABILITÀ VS REATTIVITÀ: UN FRAINTENDIMENTO ANCHE CLINICO

Per responsabilità, solitamente si intende l’abilità di rispondere alle sollecitazioni e di assumersi i rischi delle proprie azioni, dopo un’analisi del fenomeno e delle sue conseguenze. Diversamente, ciò che ritroviamo nei ritirati sociali come Luigi, quando si chiede loro un’implicazione personale, non è una risposta, bensì una reattività immediata, innescata da una tensione interna non regolata dalla cognizione. Al posto di riflessioni, dunque, si attivano riflessi simili a quelli che sono continuamente allenati dall’utilizzo dei device. Nella reazione, non c’è mediazione della corteccia, cioè quella parte del cervello che presiede al ragionamento e alla quale il genitore spesso si appella. Al contrario, in questi casi, è il corpo a rispondere, non la mente! 

Invocare, dunque, la responsabilità personale e la forza di volontà, come fossero competenze sopite da risvegliare, vuol dire non aver compreso che il proprio figlio non ha ancora sviluppato quella soggettività agente alla quale inutilmente ci si rivolge.

Il grave fraintendimento tra responsabilità e reattività riguarda anche l’ambito clinico. Spesso riceviamo ritirati sociali che hanno interrotto prematuramente percorsi terapeutici che avevano come obiettivo prioritario attivare un’implicazione soggettiva. Solitamente, tale manovra è ricercata in due modalità: 

  1. Attraverso il silenzio – soprattutto in ambito psicoanalitico –, con l’obiettivo di lasciare uno spazio vuoto al paziente affinché possa esplorare il proprio mondo interno e comunicarlo al terapeuta;
  2. Attraverso il sollecitare una dialettica, con domande tipo: «Cosa pensi di ciò che ti accade…», «Cosa ti soffrire?», ecc…

Tuttavia, entrambi i tentativi di elicitare una responsabilità rispetto al proprio mal-essere come presupposto per iniziare un percorso psicoterapeutico, sono spesso fallimentari per motivi diversi: 

  • nel primo caso, il pericolo è che il silenzio possa aggravare il senso di smarrimento e il vuoto interno, per esempio facendo precipitare il paziente in stati di freezing (Panksepp, 2014), cioè schemi di congelamento attivati come difesa conservativa;
  • nel secondo, le domande che mirano ad attivare una soggettività agente aumentano lo stato d’allerta dorso-vagale e la condizione di neurocezione di pericolo, per dirla con Porges (2011). In questi casi, la spinta al dialogo diventa frustrante sia per il terapeuta che per il paziente, il quale spesso diventa reattivo, si distrae, non capisce o non riesce a rispondere, se non a monosillabi. 

IL BISOGNO DI UNA PRESENZA AFFETTIVA

La combinazione di reazioni di freezing e di attivazione ortosimpatica d’attacco-fuga con l’innesco di meccanismi psichici di tipo dissociativo che osserviamo nei ritirati sociali è simile a ciò che spesso ritroviamo nei pazienti traumatizzati quando, per esempio, incontrano per la prima volta qualcuno o entrano in luoghi sconosciuti: si guardano attorno, il loro sguardo si muove per perlustrare l’area; hanno difficoltà a guardare negli occhi; smettono di parlare, in una condizione iper-vigile di agitazione; non possono ascoltare le proprie sensazioni corporee perché impegnati a gestire le variabili esterne.

Questo tipo di disagio a matrice corporea e digitale interroga i modelli della cura.

In effetti, come psicologi e psicoterapeuti siamo formati a pensare che il nostro lavoro si concentri “sull’ascolto e il confronto dei contenuti del discorso” (Scognamiglio & Russo, 2018, pag. 82). Tuttavia, abbiamo constatato che questo tipo di quadri clinici non rispondono ai modelli tradizionali della psicoterapia basati fondamentalmente:

  • sul potere trasformativo della parola;
  • sull’assunto di imputabilità che presuppone un soggetto agente con un senso di responsabilità e implicazione soggettiva nel suo male.

Una terapia che fa appello alle funzioni superiori neocorticali del pensiero non può essere efficace con questi pazienti. Come è possibile, infatti, intraprendere un percorso di riflessione, elaborazione e conoscenza di sé attraverso l’uso terapeutico della parola se, quando prova a farlo, Luigi ci dice: “sento una tensione incontrollabile e non riesco a pensare”?

Oltre al fraintendimento tra responsabilità e reattività, è fondamentale chiarire un altro grande equivoco clinico che i terapeuti spesso incontrano nel lavoro con i ritirati sociali. 

Giacomo, 16 anni, dopo due anni di ritiro si lascia accompagnare dai genitori al nostro Istituto per farsi finalmente aiutare: “Mio padre durante il lockdown continuava a ripetermi: «Ma perché invece di annoiarti stando sempre davanti al computer, non leggi un bel libro?». Lui non capisce che se mi fermo a leggere, mi sale un’ansia devastante. In quei casi, mi viene subito da connettermi alla chat!”. 

Le parole di Giacomo evidenziano che il padre, e come lui tanti adulti – compresi molti “addetti ai lavori” -, confonda la noia con il vuoto. 

I ritirati sociali non riescono ad annoiarsi proprio perché sono nel vuoto, cioè in uno stato d’immobilità psichica nel quale mancano rappresentazioni. La noia, al contrario, è uno stato di passività momentanea in cui il pensiero è potenzialmente disponibile e in grado di essere attivato dallo sforzo dell’individuo. Nella noia possono nascere le idee, le fantasie, il pensiero creativo. Nel vuoto no! Non si può leggere quando si è nel vuoto.

La confusione tra noia e vuoto è un errore clinico di lettura del fenomeno. 

È per questo motivo che molti ragazzi e ragazze ricercano compulsivamente oggetti distrattivi come antidoto al vuoto: entrarci in contatto potrebbe scatenare il panico. Ecco perché Giacomo sente l’urgenza di connettersi alla chat al solo pensiero di leggere un libro, e perché per molti ritirati sociali il momento più angoscioso della giornata è quello in cui devono addormentarsi. In questi casi, la fase dell’addormentamento mette in luce la mancata interiorizzazione di una presenza interna rassicurante che costringe spesso a stati di insonnia prolungati. In generale, i ritirati riescono ad accedere faticosamente all’esperienza del sonno solo quando il corpo si spegne perché è esaurito. È dunque il vuoto angoscioso, cioè una dimensione senza oggetto, e non la paura, ad assalirli non appena si disconnettono. 

Nel lavoro clinico, è davvero sorprendente ed emozionante riscontrare che, nonostante l’attivazione di difese reattive di tipo autonomico e i potenti meccanismi dissociativi a cui questi ragazzi e ragazze hanno dovuto ricorrere per evitare un’angoscia fuori controllo, in realtà non vedono l’ora di sentire una presenza affettiva autentica che vuole mettersi in contatto con loro: come dice Marco, “un altro per cui sentire il coinvolgimento di essere in battaglia insieme!”.

Dopo un lungo lavoro con la coppia genitoriale, nella prima seduta familiare con la presenza di Marco, il padre piange per la prima volta davanti a lui, dicendosi pronto a riprendere una vecchia passione – la chitarra –, iniziando dal pezzo preferito del figlio. 

La notte successiva Marco racconta in seduta di aver fatto uno “strano sogno”: “Ero in perlustrazione con il mio drone. Sentivo un rumore intorno a me, passi di qualcun altro, avevo paura. E io, in missione, non ne ho mai. Questa volta sentivo che il pericolo non era intorno, sopra o sotto di me. Questa volta il pericolo veniva da dentro di me. Improvvisamente appare uno dei miei a salvarmi. Era accanto a me, aveva il volto di mio padre, aveva le sue mani”. 

NOTE

  1. Le Gilda sono gruppi sociali on line di lunga durata in cui i giocatori collaborano per aumentare le possibilità di successo nel gioco e condividono le loro abilità, le loro conoscenze e le loro risorse virtuali, come il denaro, l’uno con l’altro (ref. Sirola, A., Savela, N., Savolainen, I. et al. The Role of Virtual Communities in Gambling and Gaming Behaviors: A Systematic Review. J Gambl Stud 37, 165–187 (2021). https://doi.org/10.1007/s10899-020-09946-1).
  2. “Le leggi e gli interdetti che regolano i rapporti sociali ed interpersonali sono diventati fluidi, contraddittori, paradossali e inefficaci e questo sgretolamento generatore d’incertezza, riguarda le grandi strutture di inquadramento e di regolazione delle formazioni e del processo sociale, i garanti metasociali appunto, quali i miti e le ideologie, le credenze e la religione, i riti e le istituzioni, i garanti del senso della categoria e della gerarchia” (Kaes, 2005).

Oltre al setting individuale, l’importanza attribuita all’influenza dell’Altro sociale, parentale, genitoriale e dei gruppi di appartenenza si traduce nell’intervento terapeutico, in una grande attenzione alle logiche e le dinamiche gruppali. Infatti, oltre alla caduta delle grandi istituzioni sociali, ovvero di una verticalità che definisce gerarchicamente il sistema simbolico, assistiamo alla perdita dell’orizzontalità che ha escluso la socialità tra pari nello spazio reale del corpo a corpo.

È questa dimensione dell’esperienza che cerchiamo di creare e far vivere ai nostri giovani pazienti ritirati.

Oltre, dunque, a un lavoro all’interno di un setting individuale, concepiamo la possibilità di un lavoro di gruppo fra pari che verrà presentato nella futura pubblicazione della Dottoressa Alice Scognamiglio.

Non perderti le prossime pubblicazioni!


Bibliografia

Kaes, R., (2005). Il disagio del mondo moderno e la sofferenza del nostro tempo. Psiche 2005, 2, Il Saggiatore, Milano.

Panksepp J., Biven L., (2014). Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Porges, S. (2011), La teoria polivagale. Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione, Fioriti, Roma, 2014.

Russo S.M., (2022). Bambini Digitalmente Modificati. Competenza somatica per la nuova clinica

Psicologia Psicosomatica, n.42, ISSN 2239-6136. Disponibile su psicologiapsicosomatica.com

Scognamiglio, R.M., Russo, S.M., (2018). Adolescenti Digitalmente Modificati (ADM). Competenza somatica e nuovi setting terapeutici. Mimesis, Milano.

Scognamiglio, R.M., Russo, S.M., Fumagalli, M., (2024). Il narcisismo del You. Come orientarsi nella clinica digitalmente modificata. Mimesis, Milano.


Le immagini sono gentilmente concesse dal portale Pixabay.

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