Prefazione del libro “Altrove sotto la pelle” (Fortis, 2020)
di Riccardo Marco Scognamiglio
Psicologia Psicosomatica – 39 – Pubblicato il 26 Dicembre 2020
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Un corpo come primum movens, come un universo che ci parla e che ci orienta, spiegandoci cosa sta accadendo al di fuori di noi, che siamo abituati a procedere per schemi comportamentali appresi spesso in conflitto con ciò che il nostro corpo ci sta comunicando. È da tale discrepanza che possono prendere forma patologie come ansia, depressione, attacchi di panico, disturbi alimentari, etc. Patologie che sembrano risiedere nel corpo e non nella mente. Ed è partendo dal corpo stesso che si può trovare una via d’uscita, una via di cura. È necessaria una psicoterapia che metta il corpo al centro, consentendoci la riacquisizione di una competenza perduta, quella delle mappe somatiche, la Somatic Competence, in modo tale che il corpo possa diventare “il luogo dove sentire l’altro, il luogo dove incontrarlo”.
“Il corridore impara a esser sempre quello che sente nei suoi organi”. Così ci insegna Remo, il protagonista di Altrove sotto la pelle. Remo il corridore, lo posso dire a ragion veduta, dispiega attraverso la sua maratona, in realtà, la sua psicoanalisi, chiedendo al lettore di testimoniare gli effetti di una Dürcharbeitung singolare: così Freud definiva quel lavorio continuo dell’inconscio che, in un’analisi, tende a essere sempre più un esercizio di consapevolezza incessabile. È come se questo lavoro costante, qui, si spostasse sul corpo che è una forma d’inconscio, o d’implicito come direbbero oggi le neuroscienze (Damasio, 2010; Schore, 2011; LeDoux, 2015). Il corpo è in effetti sempre al lavoro perché ha il compito di tradurre ciò che accade all’esterno in mappe interne della sua organizzazione neuromotoria e viscerale. Se c’è una cosa che oggi lo psicoterapeuta deve tenere assolutamente presente è che il paziente possa acquisire una sufficiente capacità di osservare cosa accade nel suo corpo. È un training che accompagna paziente e analista lungo tutto il decorso del processo di cura, in uno scambio continuo di esperienza e di riflessioni su ciò che definisco la competenza somatica: quell’attitudine a “osservare cosa accade nel corpo mentre sono con l’Altro” (Scognamiglio, 2016).
L’Altro è qualunque altra cosa non sia “me”.
Si tratta di una competenza sofisticata per l’essere umano, in quanto è abituato a procedere, nel suo sforzo adattivo al mondo delle cose, per schemi d’apprendimento, per modelli comportamentali appresi, che spesso non hanno molto a che fare con ciò che dovrebbe anzitutto essere e sentire il corpo. La bulimia ne è un esempio. Non ha nulla a che fare con la fame. Non è il corpo della bulimica, o quello dell’anoressica a chiedere di mangiare o meno! E, tuttavia, anche nell’attacco bulimico o nel progetto anoressico, il corpo è il primum movens, anche se pochi ancora ne parlano.
È l’angoscia come stato del corpo e non come condizione mentale, a muovere il soggetto verso un principio di compensazione. Si tratta del negativo fotografico di quel meccanismo vitale che chiamiamo “seeking” (Panksepp & Biven, 2012). Ce l’abbiamo sotto gli occhi fin dall’uscita dall’utero. Il neonato nei suoi primi secondi di vita, abbandonando un universo acquoso e ctonio, è costretto ad attivare una tanto complessa quanto rapida procedura di fronteggiamento. L’attivazione respiratoria e la ricerca del seno segnalano la presenza di una soggettività incarnata: col primo contatto col seno non si tratta solo di recuperare una fonte di nutrimento esterna, ma della ricomposizione di uno spazio somatico frammentato. Questa “urgenza” di sopravvivenza è, dunque, una forma primaria del male in corpo, da sedare. C’è un evidente sapere in atto, un Logos del corpo, sebbene non si possa postulare nel neonato una coscienza autobiografica, quindi metacognitiva, relativa a questo sapere.
Lo schema è identico dal punto di vista processuale a quello della crisi d’astinenza di un soggetto dipendente: non ha niente a che vedere con la ricerca del piacere. È connotata da intenso dolore fisico che ha bisogno di essere urgentemente sedato. L’arousal somatico di una crisi d’astinenza non può neppure essere ridotto a un fenomeno ansioso. La “dose” di cibo nell’attacco bulimico, o di sostanza psicotropa nella tossicodipendenza, oppure di adrenalina nella giocopatia, sono output in grado di rallentare il moto di ricerca compulsivo (Scognamiglio, 2013). Ed è qui che si gioca il cortocircuito dello schema d’apprendimento che si è costruito nell’equivoco che l’abuso, in positivo (bulimia) o in negativo (anoressia), di cibo possa saturare quella sensazione voraginosa, di natura vagale, che si apre dentro il nostro corpo, dal diaframma fino alle fauci. In realtà questo schema si costruisce originariamente con l’Altro che ci fa entrare precocemente in questo equivoco di oggetti che, come il cibo, prendono il posto delle uniche risposte disponibili nella relazione primaria a ciò che il bambino chiederebbe in termini di presenza, di affetti e di scambi corpo a corpo.
Remo ci parla della sua compulsione adrenalinica (Scognamiglio, 2018). Ci porta dentro le sue mappe corporee perché ne vediamo lo sforzo doloroso e, al contempo, orgasmatico di puntare alla meta, quel processo che Remo stesso ci avverte essere “una ricerca di abitudine a tollerare ciò che si eviterebbe, una sorta di mitridatizzazione del disagio e della fatica”. E questo meccanismo si continua a ripetere proprio perché la compulsione si rilancia a partire dalla meta raggiunta. Ce lo conferma Remo stesso: “C’è rimasto sulla pelle un fascino per le sfide. Non capiamo quanto sia malato e quanto fisiologico.(…) E se la coazione a ripetere sfide stesse nella sensazione così piena del momento esatto in cui finiscono!”. Nel momento stesso, tuttavia, in cui questa ricerca eccitatoria non solo punta a “incrementare la resilienza complessiva”, bensì diviene orizzonte simbolico così carico di relazioni, di obiettivi sociali da conquistare, di condivisioni, incoraggiamenti calorosi e atti eroici, si muta in seeking. “Così è la mia vita: una questione di spinta, – ci dice Remo – dove il tema di fondo è la gestione della pressione interna e la scelta di obiettivi sempre più nobili di cui plasmare l’entità energetica dominante”.
“Il bello di aver faticato e faticato insieme” è quella linea di fondo che permette poi di distinguere tante azioni: anche l’“alzare il gomito” fra amici per drenare lo stato eccitatorio della gara avvenuta, rispetto all’affogarsi nell’alcol per tentare di colmare la propria voraginosa solitudine. Forse entrambe compensano una mancanza, ma la prima, anche nella solitudine del viaggio natatorio, con la muta che ti tritura il testicolo, produce un simbolo di condivisione, di traguardi da raggiungere, nella ricerca dell’altro stimato e invidiato, e al contempo, volto rassicurante che, anche da antagonista, ti accompagna alla meta. La solidarietà del nemico! Il secondo è, invece, solo un rifugio momentaneo, in realtà ancor più inabissante e oscuro.
La formula è precisa: “Vivere per gestire il flash, insomma, e trasformarlo in flusso”. Per questo Remo ha una sua visione di un equilibrio che si deve giocare fra opposti: “Il danno è il flusso accelerato, appunto, e frettoloso poiché troppo precoce è il suo esaurimento nel sopore dell’assenza. Ma danno è anche il suo contrario ovvero la stasi svuotata di tensione, la depressa area grigia dell’inutilità e della impersonalità che dimora nell’inibizione protettiva e pigra”. In mezzo c’è pure lo spazio per il dubbio e il “senso di colpa” che interroga l’abitudine “al martirio simbolico prima di concederti il piacere”. Garanzia questa, per noi clinici, di una spinta elaborativa fondata su quel dubbio metodologico che, guidando l’analisi, produce insight sulla propria storia, sulle aspettative genitoriali, su quello che un tempo si sarebbe intravisto come scenario edipico, piuttosto che non su modelli relazionali fissati nella memoria procedurale. In questi equivoci che ci orientano nei nostri sintomi in forma automatica, procedurale, il compito della psicoterapia oggi è quello di penetrare, non più con l’interpretazione intellettuale di conflitti primari e neppure con la decostruzione razionale degli equivoci cognitivi. Sempre più abbiamo bisogno di ri-costruire una competenza perduta, quella delle mappe somatiche, della comprensione degli schemi di organizzazione motoria che, appunto, ci muovono fra gli stimoli del mondo e ci avvertono intorno ai nostri bisogni primari sotto forma di spinte motivazionali (Lichtenberg, Lachmann & Fosshage, 2011; Panksepp & Biven, 2012).
I fantasmi, i modelli operativi inconsci che ci orientano, ci obbligano a un certo tipo di moto e di direzione, non sono solo psichici. Remo lo ha capito molto bene: “Non lo avevo mai dimenticato il guerriero romano dei film che guardavo avidamente da bambino. Il torace e l’addome disegnati dalle forme dell’armatura, il ghigno infuriato e il sangue che scende dalla fronte sulla tempia. Un’immagine impressa nella memoria del corpo che riemerge solo nella fatica e solo in quella associazione tra tensione addominale e liquido caldo sul viso. Essere il guerriero! Essere nella battaglia! Un mito del corpo non della mente, chissà dove si è costruita quella memoria, davanti a quale film e su che poltrona e seggiola. Ma si è costruita nella carne non per immagini”. Un guerriero come ideale incarnato orienta anzitutto il corpo, la postura, la voce, il tono, la gesticolazione: e non solo in gara, bensì nella vita. A volte sarà persino troppo ingombrante, scomoda, fuori luogo. Questo per farci capire cosa significa analizzare anche rispetto al corpo i modelli procedurali con cui abbiamo imparato a gestire il rapporto con la vita e gli altri.
Questa intelligenza del corpo la chiamiamo, dunque, Somatic Competence®, competenza somatica. Viene molto prima dell’emozione, anzi è alla sua base. Quando il paziente, ad esempio, crede di provare “rabbia”, è importante che impari a chiedersi: “Ma come faccio a sapere che sto provando rabbia?”. Attraverso questo tipo di domanda ci troviamo confrontati, da una parte con un’etichetta cognitiva, la “rabbia” che, in automatico, sta interpretando una certa esperienza; dall’altra potremmo scoprire che le nostre mappe somatiche non parlano affatto di “rabbia”, perché magari osserviamo nel nostro corpo uno schema anergico, depresso, con gli arti inferiori pesanti. Queste distorsioni cognitive fra mappe somatiche e modelli interpretativi della realtà acquisiti con l’educazione sono alla base degli stati d’ansia, degli attacchi di panico, delle compulsioni; spesso di tutti i sintomi, inclusi quelli organici (Scognamiglio, 2008; 2009; 2016; 2018). Ebbene, 25 anni orsono, quando fondai l’Istituto di Psicosomatica Integrata, Michele Fortis fu fra i primi a entrare in squadra e, da medico, formarsi al modello della Psicosomatica Integrata che ha al suo cuore il concetto di competenza somatica.
Quando devo consigliare un libro di Psicosomatica, in genere, suggerisco “Storia di un corpo” di Pennac (2014), perché è vero che non è un manuale clinico, né un testo per tecnici ma, in realtà, è un libro che porta direttamente dentro l’esperienza di ciò che ho provato a suggerire poco sopra. La storia di un corpo si comincia a scrivere quando si prova a leggere la vita attraverso ciò che, anzitutto, accade dentro di sé. Ma questo dentro non nasce a sua volta da un processo d’introspezione psicologica, bensì somatica. Diventa psicologica, nella misura in cui le nostre forme pensiero sono degli effetti di ciò che accade al “di sotto”, al “di dentro” del corpo (Lakoff & Johnson, 1980). In realtà non è corretto neppure parlare di un “sotto” o di un “dentro”, in quanto ciò che sentiamo, paradossalmente, lo sentiamo in relazione sempre all’Altro, all’ambiente, a chi, come scrive Fortis, ci sta correndo e forse ci supera, e forse la vincerà lui la gara, e forse… chissà lui, cosa sta provando…
Il nostro corpo si estroflette, così, prendendo dentro l’Altro. Nella gara, nel gioco, nella lotta, ma anche nell’abuso, nella prevaricazione, nella violenza relazionale, è sempre prima il corpo che incontra l’Altro, prima ancora, a volte, che ce ne possiamo realmente rendere conto. Così fin dalle prime bozze del libro di Fortis non ho potuto che incoraggiarlo a continuare nella sua impresa di testimoniare cosa sia questo universo del corpo che ci parla e ci orienta, ci spiega cosa sta accadendo fuori di noi. Oggi nella versione definitiva del volume, mi rendo conto che questa prospettiva ne intride, fin dalla prima pagina, lo slancio scritturale con un programma teorico preciso: “La memoria è nel corpo e lui scopre di poterla attivare con le sollecitazioni e la ricerca del limite. È come se il protagonista avesse scelto di “passare” dalla carne per rendere concreto il proprio essere al mondo”. Che questo ne diventi addirittura “il filo conduttore che collega i diversi episodi”, non fa che confermare come abbia voluto far sua la lezione, dalla Psicoanalisi alla vita, attraverso l’incarnazione dei suoi principi operativi. Non solo “l’allenamento è stato il suo modo di salvarsi la vita” ma, l’autore ci dice, riferendosi a Remo, ha saputo “andare oltre”, fino a fare dell’attività fisica “il più potente strumento di ricerca di sé e del mondo”. E quando mi trovo davanti a centinaia di persone a tenere una dimostrazione della tecnica psicoterapeutica secondo il modello Somatic Competence®, sto sperimentando in una seduta pubblica gli effetti reciproci del rapporto fra il pensiero che si esprime fondamentalmente nel linguaggio e le reazioni del corpo. Ebbene, la mia più grande fatica è quella di spiegare ai colleghi psicologi e psicoterapeuti ciò che un atleta come Remo capisce benissimo, anzi fonda la sua performance su di esso: che la nostra storia, la storia di tutti, che include il dolore di esistere, la disperazione, i momenti di gioia e le conquiste, fino al confronto con la malattia e la morte può essere raccontata fondamentalmente “dai suoi muscoli, dalle articolazioni e dalla pelle”. Le immagini, le emozioni, la narrativa verbale, infatti, non possono che venire dopo. Ma quanto è difficile, per chi si è formato nell’idea che sia la mente a fare tutto, tollerare che il famoso cogito cartesiano va, in realtà, oggi alla luce delle neuroscienze, del tutto ribaltato. Oggi, infatti, siamo certi del fatto di avere un corpo, mentre sull’esistenza della mente abbiamo qualche dubbio determinato dalla presenza del linguaggio. Cosa significa?
Ce lo insegna Remo che, da buon “somatic-competent”, si rapporta a un’emozione così forte come quella che si prova tagliando il traguardo, non parlando in forma denotativa di “felicità”. Bensì ci coinvolge in un flusso connotativo, che è quel bordo del linguaggio che più ci conduce nel corpo a corpo, in cui l’elicitazione dei mirror-neurons ci permette di immedesimarci: “Se esiste la felicità deve assomigliare molto a questa vibrazione che dalla nuca scende all’osso sacro e torna indietro: non c’è rilasciamento; non c’è obiettivo. Starei in questa beatitudine dolorante per giorni e giorni, fino alla prossima opportunità, scavalcando volentieri tutto il resto, che sembra, visto da così lontano, un grande vuoto”. Al di là del livello connotativo ci sono solo gli stati del corpo. E sembra che siano proprio gli stati del corpo a guidare tutta l’esperienza di Remo: “Non so più nulla del mondo ormai; sono solo nelle mie gambe, nella mia bocca asciutta, nelle braccia che ondeggio con insistenza per aiutare la parte inferiore del corpo che ha preso su di sé tutto il sé: io sono le gambe che non si fermano; io sono le scarpe che si appiattiscono tra terra battuta e scampoli di asfalto; io sono il cuore che batte regolare! Chi fa sport di endurance da anni, sa che esiste un momento dove essere il corpo è l’unica via ma l’io-corpo beneficia dei sogni e delle immagini accumulate da sempre nella mente, della memoria del corpo stesso“.
Remo, alias Michele, è un personaggio antico, di quelli sempre più rari, che ancora percepiscono la vita attraverso la metafora della gara, anzitutto con se stessi, del superare continuamente il proprio limite. Anche l’entusiasmo sensoriale con cui continua a cercare punti di repere, scansioni del tempo e dei contesti è antico: dall’afrore dei corpi sudati e unti di fluidi balsamici nel pre-gara, al calice di rosso che fa superare il limite dell’Ego. Un panorama che tende a scomparire nelle nuove generazioni, sempre più distanti da questa realtà del corpo che gode e soffre nell’impatto con le molteplicità della materia e degli elementi, ottuso da realtà sempre più virtuali e così rassicuranti nel loro ottundimento. Le nuove generazioni digitalizzati si stanno statisticamente sempre più immobilizzando davanti ai device. Cambieranno anche i corpi – sta già succedendo – dei nostri figli e nipoti ed è già cambiato l’orizzonte motivazionale: sempre meno gare sudaticce e sempre più reward-target digitali. Le nuove generazioni stanno perdendo le storie, la logica narrativa e ciò che vi è di più connesso: la lettura e la scrittura. In realtà vengono meno proprio i traguardi e la loro cultura. Così è il futuro che non si rivela e questo non mostrarsi, questo affondare lo sguardo prospettico nella precarietà assoluta del domani, cancella anche il passato, la storia. I nuovi giovani non hanno più storie da raccontare.
A molti di loro, le nuove generazioni di genitori non le hanno mai raccontate. Più facilmente li hanno messi precocissimamente davanti al touch-screen e ai videogiochi sottraendoli alle favole che servivano a infiltrare nella mente infantile i simboli e le metafore che li avrebbero dovuti aiutare a leggere il mondo. Queste generazioni digitalmente modificate soffrono in percentuali ormai altissime di ansia e depressione. Non hanno istruzioni per l’uso per i ripetuti attacchi di panico. Il panico è il corpo, non la mente. È il corpo, quindi, che solo può fornire la via d’uscita. Ma i nuovi giovani hanno smarrito la coscienza del corpo. Remo, invece se la cava benissimo: ha imparato “quanto i muscoli affaticati e pesanti possano garantire un’ancora di salvezza dalla crisi “panica” di dissoluzione”. Questo apprendimento avviene per lui nel confronto con la capacità assorbente della natura, dove panico e panismo si confondono: “La meraviglia e la nuda fisicità si incontrano in un luogo così eccezionale che senza l’introduzione dell’elemento fatica e la nota di dolore da contrattura al deltoide, rischierei di perdermi in un senso panico tanto angosciante quanto lo è il vuoto depressivo del pomeriggio d’autunno in casa a studiare da solo in camera. L’estasi e l’impoverimento di stimoli hanno in sé uno stesso ineluttabile piano inclinato: la perdita del confine del corpo e quindi del sé, una dissoluzione graduale dell’identità nell’indefinito magma universale. Credo ormai con fermezza che ciò sia l’angoscia di morte!”. Fra le righe delle sensazioni e degli stati del corpo si dispiegano dialoghi interiori che fanno di questa storia un percorso iniziatico o romanzo di formazione in cui l’ascolto del corpo diviene la lente per guardare la vita da un punto di vista “altro”.
Per questa ragione ho trovato questo libro sorprendentemente un libro di clinica psicoterapeutica, nella misura in cui dopamina, endorfine, glicemia, serotonina e pH, traducono scientificamente in molecole quel misto di soddisfazione e sofferenza, a volte indolenzimento, a volte spasmo, tenesmo, che un atleta conosce molto bene come la sua “tossicodipendenza”, il suo trip psicosomatico, irresistibile. Sarà un libro fondamentalmente letto da compagni di lotta di Michele, da atleti che condividono questa irresistibile dipendenza dal “sudare alla meta”. Un vero peccato perché dovrebbe essere letto da psicoterapeuti per apprendere, definitivamente, che oggi non si può più fare psicoterapia senza mettere il corpo al centro, con quello che ha da dirci, quello cui ci spinge quando traduciamo in organizzazione neuromotoria le nostri emozioni e motivazioni. Fortis ci insegna quello che vorremmo ottenere dai nostri pazienti: che imparino a muoversi ascoltando i loro stati interni, che sentano l’Altro. E infatti, non facciamo che scoprire nella Dürcharbeitung, diremo, che il corpo non è il luogo della chiusura narcisistica bensì è il luogo dove sentire l’Altro, il luogo dove incontrarlo: “E poi cosa avrei potuto trovare senza avere incontrato anime inquiete capaci di gesti e riti di amicizia e fratellanza che solo le grandi fatiche hanno potuto produrre? Cosa avrei fatto se non avessi potuto mettere in gioco un momento di speranza e di autostima per le persone che ho incontrato zoppicanti, sulla mia strada, e se non avessi offerto loro compagnia dentro un obiettivo sudandolo insieme?“. E, alla fine, tutta questa storia del corpo non è altro che poesia.
BIBLIOGRAFIA
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Scognamiglio, R. M. (2013). Psicosomatica: quale contributo per l’età evolutiva?, in Pace P., Pozzoli S. (a cura di), Nutrire il cuore – L’importanza dell’intervento precoce nella prevenzione dei disordini alimentari in età evolutiva. Milano: Edicolors Joy Division.
Scognamiglio, R. M. (2016). Psicologia psicosomatica. L’atto psicologico tra codici del corpo e codici della parola, Milano: FrancoAngeli.
Scognamiglio, R. M., Russo, S.M. (2018). Adolescenti Digitalmente Modificati (ADM). Competenza somatica e nuovi setting terapeutici. Milano: Mimesis