Il talk online “In Virus Veritas. Filosofi e psicologi a confronto“, ideato e condotto da Alessia Leoni e Andrea Zoccarato, ha visto la partecipazione dei due filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici di Tlon e di Riccardo Marco Scognamiglio, psicoanalista e direttore scientifico dell’Istituto di Psicosomatica Integrata oltre che direttore della Scuola di psicoterapia Analitica di Gruppo Nuova Clinica Nuovi Setting.
Parafrasando il noto proverbio latino, il titolo allude al concetto che eventi anche molto drammatici, nell’alterare la “normalità”, possono portare a concepire riflessioni importanti. Così è stato.

Intervallati da preziosi contributi di immagini e testimonianze, gli ospiti hanno potuto affrontare il fenomeno secondo declinazioni diverse, considerando gli aspetti critici legati al distanziamento fisico e al linguaggio comunicativo dei media, e al contempo le risorse cui possiamo attingere per far fronte agli infiniti potenziali stressor più o meno consapevoli attivi in questo periodo.
Partendo dalla testimonianza di Scognamiglio relativa agli effetti alienanti del Coronavirus vissuti in prima persona, dovuti anche alla perdita della sensorialità olfattiva e gustativa, gli argomenti affrontati sono stati molteplici e complessi.
Tra questi, la riflessione si è concentrata in primis sul legame inscindibile tra verità e concretezza della vita. Per esplorare meglio questo concetto, Scognamiglio ha rievocato la vicenda mitica delle origini del Buddismo, secondo cui il principe Siddharta Gautama visse fino a 29 anni nel palazzo reale, tenuto all’oscuro della verità tragica e crudele del mondo, fino a quando decise di uscire per sperimentare la realtà cui era stato sottratto. Scognamiglio evidenzia come il ritiro ascetico non rappresenti la via più utile per «contattare la verità» perché:
«l’ascetismo assoluto ti mette in una condizione di deprivarti di tutta una serie di esperienze sensoriali»,

Riproducendo una dimensione altrettanto claustrofobica che impedisce qualunque esperienza relazionale. In modo analogo, la parziale privazione della sensorialità, che comunemente consegue all’infezione da Coronavirus, priva l’individuo di un elemento cruciale per entrare in contatto con la realtà esterna, in ultima istanza con l’altro da sé.
Per provare a concepire quali possano essere le ricadute sul piano psicosomatico dell’isolamento fisico e sociale imposto dalle misure di contenimento della diffusione del Covid-19, Scognamiglio si sofferma sulla inscindibilità tra mente e corpo, confermata dalle attuali scoperte neuroscientifiche, e sulla centralità del sistema della ricerca (seeking) come forza propulsiva che induce a ricercare gli stimoli piacevoli e gratificanti. Tale sistema comportamentale/motivazionale di base, attivo fin dai primi istanti di vita, è fondamentale per la sopravvivenza fisica e psichica in ogni fase dell’esistenza:
«Un corpo immobilizzato è un corpo che a cui viene tolto il core vitale per eccellenza che è il seeking, cioè il puntare verso qualcosa. Se non posso muovermi, non ho più niente da raggiungere. Quando esce dal ventre materno, la prima cosa che un bambino sano fa è il grasping e crawling, cioè comincia a esercitare un’organizzazione neuromotoria per andare a risolvere la sua crisi di astinenza […] col seno materno, ammesso che ci sia un seno disponibile perché non sempre questa diade si conforma in una forma così armonica. C’è un seeking, un andare verso, un grasping, quindi c’è un corpo che sostiene questo andare verso, e poi c’è qualcosa che rappresenta la meta di questo sforzo.»

Come il neonato è motivato a direzionare il proprio sforzo verso il seno materno, così l’adulto necessita di una spinta motivazionale che lo muova, la quale è primariamente relazionale. Ecco perché la dimensione di isolamento che stiamo sperimentando, limitando il contatto sociale, minaccia di renderci immobilizzati, in uno stato di congelamento (freezing) in cui la paura si può trasformare in angoscia traumatizzante e difficile da elaborare.
Altro aspetto rilevante del confronto è stata la riflessione sul linguaggio utilizzato dai media nella comunicazione relativa al Coronavirus. Come ricordato da Zoccarato, tra le “tre buone pratiche suggerite per affrontare il Coronavirus”, il Vademecum creato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha consigliato ai pazienti di ridurre la sovraesposizione alle informazioni dei media e dei social, limitandosi all’acquisizione delle informazioni di base «necessarie per proteggersi, senza farsi sommergere da un flusso ininterrotto di “allarmi ansiogeni”». Considerando il linguaggio bellico che viene quasi universalmente adoperato per metaforizzare l’emergenza Covid-19, Gancitano osserva come il concetto stesso di “guerra” sia inappropriato per definire la situazione attuale, sottolineando l’assoluta novità di questa:
«“Guerra” è un termine che è troppo legato al modello patriarcale, ad un modello di scontro muscolare e di vittoria del proprio interesse personale. Invece [occorre] spostare il focus e osservare le cose sotto tanti punti di vista diversi».
A tal proposito, enfatizzando l’urgenza di un’«ecologia del linguaggio», ossia di una «decrescita felice linguistica» volta ad un uso più consapevole delle parole, Colamedici approfondisce le finalità sottostanti la scelta del vocabolario usato per narrare l’emergenza di questi mesi:
«Il punto è come trasmetti [le informazioni] alle persone: attraverso un’educazione di massa che passa attraverso un aumento della consapevolezza generale, oppure lo fai calcando di nuovo sulle più basse funzioni possibili e rendendo ancora più vittime e schiave le persone? Quello che sta accadendo ricade molto spesso in questa seconda istanza in cui titillo il tuo bisogno di sopravvivenza e ti faccio cadere il senso del reale e tu hai talmente tanta paura che smetti di avere paura».
In contrapposizione al bombardamento delle informazioni, Scognamiglio rivela come la sua esperienza personale del Coronavirus sia stata segnata da un fenomeno del tutto singolare:
«Durante la febbre, la mia mente era costantemente e ossessivamente ingombrata da formule […] incantatorie di natura spirituale come i mantra […]. Lo metto in contrapposizione invece al bombardamento delle informazioni dall’esterno, come se la mente si proteggesse […]. La mente cerca di pulirsi, un’ecologia della mente, si riempie di altre informazioni meno egoiche, in un automatismo che può sembrare anche patologico.»
Le immagini di Papa Francesco che prega per la pandemia, da solo, sotto una pioggia battente, nel vuoto e nel silenzio di Piazza San Pietro, è l’occasione per un ulteriore approfondimento di Scognamiglio sull’importanza del rito come dimensione della mente essenziale per superare il senso di smarrimento avvertito più acutamente in queste settimane.

Riprendendo una considerazione di Colamedici circa l’opportunità di creare riti collettivi per pregare e accompagnare i morti, sottratti alle esequie pubbliche, attraverso una sintonizzazione delle menti, Scognamiglio nota come il rito non necessiti della presenza di una folla per dirsi tale. Così come il Papa, pur senza essere circondato dalla consueta folla di fedeli, prega per tutta l’umanità, così ognuno di noi può rinvenire nel rito collettivo – religioso o laico – un modo per continuare a mantenere l’altro nella mente, sebbene fisicamente lontano nella propria vita:
«una dimensione del tenersi per mano, della carezza, è l’aspetto serotoninergico di cui tutti gli esseri, o almeno quelli a sangue caldo, hanno disperatamente bisogno per sopravvivere.»
Le parole dissacranti eppure suggestive con cui Zerocalcare racconta la sua esperienza della quarantena («ma che se inventeremo quando se guarderemo allo specchio e staremo ancora allo sbando isolati e manco je potremo più accolla’ sti cocci al Coronavirus?») fungono da monito rispetto al rischio che l’irruzione della realtà del virus possa essere usata strumentalmente per posticipare qualsiasi riflessione più profonda sulla propria vita, o peggio scotomizzata in seguito all’azione di uno dei meccanismi fondamentali dell’essere umano, ossia – come ricorda Colamedici – la sua straordinaria capacità di adattamento.

In chiusura, distinguendo i concetti di igiene e di sterilizzazione e applicandoli alle relazioni, Gancitano mette in guardia dal pericolo di «sterilizzare il nostro rapporto con l’esterno» anziché igienizzarlo attraverso «uno sguardo nuovo» con cui percepire in modo potenziato e con «meraviglia» gli stimoli esterni.
Infine, ricollegandosi a quanto già sostenuto in precedenza da Scognamiglio e Colamedici, Gancitano suggerisce il recupero di ritualità laiche come strumento per cogliere il tempo soggettivo dell’esperienza attuale, riconfigurandola come potenzialmente trasformativa:
«La ritualità è collegata al tempo: vivere altri tempi durante la giornata è un modo per costruire la propria ritualità che non è né nella routine né la produttività. Qui non si tratta di creare delle abitudini, delle tabelle di marcia né di essere produttivi, ma di avere una propria ritualità [perché] questo tempo è davvero qualcosa che ci possiamo costruire e di cui dobbiamo avere cura e responsabilità.»
