Una lettura dell’ “effetto brand” in Psicosomatica Integrata
di Emanuele Castello e Rossana Curatolo
PSICOLOGIA PSICOSOMATICA – 33 -PUBBLICATO IL 26 OTTOBRE 2017
Quale importanza riveste il farmaco nella società contemporanea? Qual è il ruolo della pubblicità nella costruzione delle aspettative e dei significati relativi al concetto di salute? L’articolo propone la rilettura di una ricerca sull’ “effetto-brand”, ovvero uno dei fattori in grado di orientare le scelte del consumatore al momento dell’acquisto di un prodotto, analizzandone i risultati alla luce dell’esperienza clinica attuale e del Modello di Psicosomatica Integrata.
Il consumo di farmaci oggi
Con quale frequenza, nella vita di tutti i giorni, ci capita di imbatterci nella pubblicità di un farmaco, sia essa uno spot televisivo, un cartellone pubblicitario o altro? Probabilmente almeno una volta al giorno, in forma e misura diversa a seconda della stagione e dell’orario della giornata: per quanto riguarda, ad esempio, gli spot televisivi, è risaputo infatti che in autunno/inverno si pubblicizzano in genere i farmaci antinfluenzali, in primavera quelli per le allergie e in estate gli integratori vitaminici e di sali minerali. Se si frequenta assiduamente uno studio di medicina generale, si può facilmente osservare inoltre come l’affluenza sia mediamente molto alta. Dal colloquio con i medici, si evince che la richiesta dell’utenza riguarda per la maggior parte soluzioni semplici e il più possibile immediate: farmaci considerati dall’azione potente e rapida sono spesso preferiti a quelli con un’azione magari più duratura e profonda, ma a lungo termine. Possiamo avere una dimostrazione di questa tendenza anche osservando i flussi d’accesso alle farmacie e dialogando con i farmacisti. Le ricerche statistiche ci confermano l’importanza che riveste il farmaco nella società di oggi: già dai dati relativi al primo semestre del 2013 provenienti dall’Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali (AIFA, 2013) si evidenziava un incremento significativo del consumo di farmaci, sia per quanto riguarda l’assistenza convenzionale (+3,2% del numero di ricette, +2,6% confezioni acquistate rispetto all’anno precedente) sia per la spesa privata (incremento del +3,9%, su vari tipi di farmaci non mutuabili). Nel 2013, inoltre, metà della popolazione anziana assumeva da 5 a 9 farmaci al giorno e l’11% addirittura più di 10 farmaci al giorno; in totale, quasi sette milioni e mezzo di italiani anziani assumevano cinque o più farmaci al giorno.
Da studi più recenti (AIFA, 2015 – Rapporto Nazionale sull’uso dei farmaci in Italia), si evidenzia come tale dato sia progressivamente in ascesa: si è verificato, infatti, un ulteriore incremento della spesa farmaceutica nazionale e del consumo farmacologico medio.
“Nei primi nove mesi del 2015 la spesa farmaceutica nazionale totale (pubblica e privata) è stata pari a 21,3 miliardi di euro, di cui il 76,5% è stato rimborsato dal SSN. La spesa farmaceutica territoriale pubblica si è attestata a quota 9.727 milioni di euro (circa 159 euro pro capite), con un aumento del +9,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. (…) Gli italiani hanno consumato 1.041,1 dosi ogni mille abitanti in regime di assistenza convenzionata con un lieve incremento rispetto all’anno precedente (+0,5%).I consumi crescenti sono in linea con la tendenza generale dell’invecchiamento della popolazione e della cronicizzazione delle patologie”.
Dagli ultimi dati del 2016 si riscontra ancora un incremento di spesa pubblica e privata, che tuttavia ha previsto un maggiore rimborso da parte del Sistema Sanitario Nazionale: si è raggiunta, infatti una spesa farmaceutica nazionale totale (pubblica e privata) pari a 21,9 miliardi di euro, di cui il 77,4% è stato rimborsato dal SSN. La spesa farmaceutica territoriale pubblica è stata pari a 10.269 milioni di euro (circa 169,27 euro pro capite). Altro dato interessante riguarda l’acquisto di farmaci da parte delle strutture sanitarie pubbliche che presenta anch’esso un notevole incremento (150,94 euro pro capite, in crescita del +13,4% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Le dosi giornaliere per mille abitanti sono state pari a 159,1 e sono incrementate del +6,0% rispetto all’anno precedente. Ci è sembrato inoltre interessante riportare questo dato, sempre del 2016, che evidenzia, per quel che riguarda la spesa farmaceutica convenzionata:
“…un aumento dei medicinali prescritti (+1,0% in termini di dosi-definite-giornaliere, i.e. DDD), una forte diminuzione dei prezzi (-2,6%), concomitante ad uno spostamento dei consumi dalle specialità medicinali più costose verso quelle meno costose”.
Da questi rapporti, si evidenzia molto bene come il farmaco sia oggi molto presente nella vita delle persone, in forte aumento rispetto al passato, con una tendenza degli ultimi anni verso la scelta di farmaci più economici e una parziale diminuzione della spesa privata e convenzionata. Come si spiega questo incremento? Seguendo l’ipotesi dell’AIFA, questo mutamento è dovuto all’aumento progressivo della popolazione anziana e delle patologie ad essa correlate, che necessitano spesso un’assunzione di farmaci per un periodo di tempo illimitato; ma non è escluso possano avere un ruolo importante anche altri fattori. Negli ultimi anni stiamo assistendo, infatti, a livello sociale, ad una graduale accelerazione dei ritmi di vita, che permette sempre meno di fermarsi e di frenare la produttività; l’attenzione si concentra sempre più sulla performance, sui risultati e sempre meno sui processi, complice uno stile di vita iper-accelerato e richieste della società sempre più alte. Questo determina una progressiva diminuzione della capacità di tollerare i tempi d’attesa, particolarmente evidente nelle nuove generazioni, abituate sempre di più ad una comunicazione digitale e immediata[1]; in tal modo, le soluzioni semplici e veloci risultano quasi sempre preferibili rispetto a quelle complesse e che porterebbero risultati a lungo termine. A partire da questi dati, abbiamo dunque voluto indagare come vada a costituirsi la preferenza delle persone per un certo tipo di farmaci (ad esempio, se il farmaco di marca possa essere ritenuto più efficace rispetto a un generico), per comprendere meglio in quale panorama sociale si inserisce oggi il processo di cura e quali conseguenze vi possano essere nella relazione tra curante e paziente.
Attribuzione di significato e preferenza di scelta
È possibile che le persone si aspettino che un particolare tipo di farmaco sia maggiormente efficace rispetto a un altro perché ne hanno visto la pubblicità in televisione? Il significato che una persona attribuisce un trattamento può senz’altro influire notevolmente sull’aspettativa riguardante il suo funzionamento ed è, a sua volta, influenzato da vari fattori (cfr. Moerman, 2002): ad esempio, il modo in cui la persona percepisce la realtà, il suo contesto culturale di riferimento o ciò che i giornali e i mass-media riportano a proposito di quel tipo di trattamento. Per rispondere a questa domanda, è dunque necessario avere un’idea di come le persone si costruiscano un’opinione su determinati argomenti. Gran parte del sapere riguardo al mondo viene appreso semplicemente dal contesto famigliare e sociale al quale si appartiene e le modalità con cui si percepisce la realtà sono diverse da cultura a cultura: alcuni cibi, considerati commestibili secondo una cultura, possono non esserlo in un’altra, lingue diverse modellano l’esperienza in modo differente, una determinata storia politica trasmette idee specifiche su come gestire le relazioni sociali (Moerman, 2002). La modalità di conoscere il mondo è, quindi, estremamente variegata e ciò vale anche per quel che riguarda l’efficacia delle terapie e i significati relativi alla salute: è diverso nascere, ad esempio, in una società tribale, dove tutto il sapere è affidato allo sciamano Secondo alcune ricerche (Grenfell, 1961 – De Craen, 2000), ad esempio, esistono differenze culturali riguardanti l’attribuzione di significato relativa all’iniezione tra Stati Uniti ed Europa: negli Stati Uniti essa viene percepita come più efficace rispetto a un farmaco assunto per via orale, contrariamente a quanto accade in Europa. Un elemento interessante, che influenza il significato e la percezione dei trattamenti farmacologici, è il colore delle pillole.
In un esperimento di Blackwell et al. (1972) è emerso che le pillole rosa vengono considerate eccitanti e quelle blu sedative[3], a prescindere dal fatto che siano dei placebo o dotate di principio attivo; queste ricerche dimostrano come i colori tendano dunque a essere “interpretati” e a indurre un’attribuzione di significato da parte delle persone. I colori “significano” e i significati potrebbero addirittura influire sui risultati delle terapie: i farmaci eccitanti vengono, infatti, tendenzialmente commercializzati con colori caldi, mentre i farmaci sedativi con colori freddi (Moerman, 2002). Un’interessante eccezione a questa tendenza sembra essere il Viagra, che pur essendo una sostanza eccitante, viene commercializzato sotto forma di pillole blu.
Nel caso del Viagra probabilmente è stato scelto questo colore perché questo farmaco, più di ogni altro, è rivolto a un pubblico maschile; la pubblicità evidenzia inoltre la forma allungata di questa pillola, rappresentandola in diagonale, richiamando la forma del simbolo utilizzato in biologia per indicare il sesso maschile ( La scelta del colore in questo caso potrebbe anche essere motivata dal richiamo di espressioni inglesi, quali Blue Movie, “film erotico o pornografico”, dove il colore blu assume un significato differente[4]. Non solamente il significato, ma anche il significante ha un ruolo molto importante. Il nome dei farmaci spesso rimanda alla funzione terapeutica che essi svolgono: ad esempio, l’Ansiolin ricorda l’attenuazione dell’ansia, l’Antalgil ricorda la funzione antidolorifica, il Digestopan ricorda l’azione sull’apparato digerente. L’influenza dei nomi sull’effetto delle medicine non sfugge all’industria farmaceutica, che porta avanti delle precise scelte di marketing miranti alla vendita del farmaco.
La pubblicità sfrutta dunque notevolmente l’influenza dei nomi, non solo rispetto ai farmaci, ma anche relativamente a prodotti di uso comune (De Judicibus, 2011). Relativamente agli psicofarmaci, sono state condotte diverse campagne pubblicitarie di sensibilizzazione e conoscenza dei loro effetti. Il Diazepam, ad esempio, la molecola che costituisce il Valium, è stato inizialmente proposto sotto forma di gocce “rosa big-bubble”, al gusto di sciroppo al lampone, con lo slogan “riduce la tensione psichica”, mentre successivamente è stato commercializzato in forma di compresse gialle con un caratteristico buco al centro, a forma di V, così da renderle riconoscibili anche dal punto di vista tattile. Un altro slogan, infatti, affermava: “Valium, quello che conosci meglio!” (cfr. Astori, 2007). Il Prozac è stato, invece, pubblicizzato negli anni ’80 con lo slogan “lava via ogni tristezza” e, nel manifesto, la casalinga raffigurata teneva in alto un fustino simile a quello dei detersivi, con evidenziata la scritta del farmaco. (cfr. Astori, 2007).
Si ritiene, quindi, che l’effetto dell’attribuzione di significato sulle persone sia molto noto alle industrie, tanto da essere utilizzato quotidianamente nel marketing per influenzare il pensiero di chi acquista, anche in ambiti diversi da quello medico e farmaceutico, come confermato da diverse ricerche (Benedetti, 2012).
Una ricerca sull’attribuzione di significato
A partire da queste riflessioni, abbiamo deciso di prendere in esame una ricerca di qualche anno fa sull’attribuzione di significato (Astori & Curatolo, 2013), per esplorare le modalità in cui questo fenomeno possa essere più o meno in grado di orientare la scelta delle persone nell’acquisto. La domanda di ricerca è se il prodotto che rappresenta un brand conosciuto e pubblicizzato venga considerato in media più efficace rispetto a uno generico e meno conosciuto. L’ipotesi di partenza è che prevalga la scelta del prodotto di marca rispetto al generico, in quanto si presume, sulla base di quanto detto precedentemente, che il nome commerciale e la fama di un farmaco modifichino l’aspettativa del consumatore, ovvero che i farmaci di marca vengano considerati più efficaci e di maggiore qualità. Il questionario è stato somministrato a 398 persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni e residenti nell’hinterland milanese (tabella 1, 2 e 3). Esso si compone di 11 domande a risposta chiusa, ciascuna con 2 opzioni di risposta (brand vs non-brand)[5]. Per la formulazione delle domande è stato creato uno scenario ipotetico, all’interno del quale sia il farmaco di marca che quello generico (e così anche gli altri prodotti) presentavano lo stesso prezzo, lo stesso principio attivo e la stessa dose, tenendo in considerazione il fatto che i farmaci di marca sono commercializzati in genere con un prezzo superiore e che questa differenza avrebbe potuto influenzare la scelta delle persone.
Tabella 1 – I soggetti della ricerca
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Tabella 2 – Età dei soggetti
Tabella 3 – Tabella riassuntiva dei risultati ottenuti, in frequenze percentuali. I farmaci sono evidenziati in rosso, i prodotti di consumo quotidiano in blu, gli integratori energetici e nutrizionali in verde.
L’effetto “brand”
Dall’analisi descrittiva dei dati emerge una sostanziale conferma dell’ipotesi iniziale: in linea generale, si riscontra una prevalenza di scelta dei prodotti noti rispetto a quelli generici, anche se il consenso non è stato ottenuto in modo del tutto omogeneo. La scelta degli anti-infiammatori di marca ha generato punteggi leggermente inferiori, se paragonati ai prodotti energetici e ad alcuni prodotti alimentari proposti (Multicentrum, Supradyn e Caramelle Ambrosoli). Per quest’ultimi si è ipotizzata, dunque, un’influenza maggiore della pubblicità nella scelta del brand; bisogna considerare, però, che l’efficacia di un messaggio pubblicitario possa essere determinata anche dalla capacità di persuasione della propaganda. Per quanto riguarda i farmaci, il ruolo della pubblicità ha dimostrato di avere comunque una forte rilevanza: Oki, Moment, Prozac e Valium vengono tendenzialmente preferiti rispetto al corrispettivo generico, complice presumibilmente il fatto che il loro nome venga considerato sinonimo di una maggior affidabilità per la maggior parte del campione. Si può ipotizzare che alcuni di essi (es. Aulin) abbiano ottenuto percentuali meno significative perché oggi le informazioni che si possiedono relativamente ai principi attivi e alle composizioni dei farmaci sono maggiori e più facilmente raggiungibili rispetto al passato (attraverso internet, ad esempio); questo fa sì che le persone tendano a confrontarsi in modo più critico con ciò che viene comunicato dal medico. Se questa ricerca fosse stata condotta 30/40 anni fa, i risultati sarebbero stati forse diversi: possiamo supporre che i farmaci di marca avrebbero ottenuto percentuali di gran lunga superiori. Prima, infatti, ci si affidava maggiormente al consiglio del medico o del farmacista, poiché il livello culturale e d’istruzione era inferiore, i mezzi tecnologici e d’informazione meno sviluppati e la possibilità di formarsi opinioni autonomamente più limitata.
Il “fattore BIO”: nuovo brand o caso particolare?
Un ulteriore dato interessante, che emerge dalla ricerca, riguarda lo yogurt naturale: nonostante la differenza tra percentuale di scelta della marca e del generico non sia particolarmente ampia[6], lo yogurt bianco biologico è stato scelto in maggior misura rispetto a quello di marca. In questo caso è possibile che, trattandosi di un prodotto naturale (e biologico), i soggetti che hanno scelto quello non commercializzato abbiano indirizzato la loro scelta verso un prodotto dichiaratamente genuino e non si siano lasciati influenzare dal nome commerciale. Sappiamo, infatti, che oggi sta sempre di più diffondendosi il consumo dei prodotti biologici (SANA, 2013), ai quali s’interessa anche la ricerca scientifica; si potrebbe, quindi, ipotizzare che anche l’appellativo “BIO” costituisca di fatto un “brand” e che le persone possano riconoscersi in tale marchio, tanto da risultare addirittura preferibile rispetto ad un’altra etichetta commerciale. In quest’analisi, va considerato attentamente anche il ruolo dell’immagine e del packaging che, come sappiamo, nel marketing riveste un’importanza notevole: infatti, lo Yogurt BIO era rappresentato da un vasetto verde, a differenza del vasetto bianco dello Yogurt di marca, che potrebbe aver attivato fantasie relative alla bontà e alla freschezza del prodotto.
L’effetto brand si modifica a seconda dell’età e del sesso?
L’analisi dei risultati è stata svolta anche prendendo in considerazione le differenze di genere, anagrafiche e di stato civile. Per i soggetti di età inferiore a 40 anni non si osserva una differenza netta tra la scelta del farmaco di marca rispetto al generico, mentre tra i soggetti che hanno più di 40 anni si riscontra una maggiore differenza tra brand e non brand [7]. Si può ipotizzare che tali differenze siano dovute a un fattore generazionale: sembra infatti che quest’ultimi tendano a dare più importanza al nome del farmaco rispetto ai giovani, forse a causa di una maggiore difficoltà a reperire informazioni sui principi attivi e sulla composizione dei farmaci servendosi, ad esempio, di mezzi tecnologici e a causa di una più alta esposizione agli spot televisivi (soprattutto in casi di soggetti anziani e dunque pensionati); questo fa sì che si affidino maggiormente alle indicazioni dei media, dedicandosi meno a cercare soluzioni alternative.
Tabella 4 – Scelta delle etichette da parte di soggetti giovani (in blu) e meno giovani (in rosso). Si nota una preferenza maggiore per la marca da parte degli over 40 relativamente a Oki, Moment e Multicentrum.
Oki Moment Multicentrum
Per quanto riguarda il genere, le preferenze maggiori per il brand si riscontrano nel sesso femminile[8]: ciò evidenzia una più alta difficoltà da parte delle donne ad affidarsi a prodotti non di marca, preferendo invece assumere farmaci già noti, considerati più sicuri e qualitativamente migliori.
Nel caso dello yogurt, la preferenza delle donne relativamente al biologico (56%) ne indica una maggiore sensibilità rispetto alla scelta dei prodotti naturali, tendenza confermata anche da alcune ricerche sull’argomento (Boccaletti, 2010).
Quali prospettive per chi si occupa di cura?
I dati che abbiamo raccolto in questo articolo ci fanno senza dubbio riflettere su alcuni aspetti degni di nota: la tendenza generale della popolazione a orientarsi verso un aumento progressivo del consumo di farmaci (che sembra essere in costante crescita) e un forte investimento nel “brand” (sia che riguardi farmaci o prodotti di uso comune). In particolare, i dati della ricerca ci indicano che il nome commerciale e la pubblicità attivano un significato per le persone (più o meno forte a seconda del tipo di prodotto, dell’età e del genere del campione) e ricoprono un ruolo determinante nella scelta del prodotto, tanto da far nascere nel fruitore un’aspettativa di cura maggiore nel farmaco di marca, ad esempio, rispetto a quello meno conosciuto.
Dai dati si può anche ipotizzare come oggi i media riescano a influenzare il parere del consumatore che, nella scelta, si affida a un sapere condiviso sul web o veicolato attraverso la tv. Quest’importante cambiamento socioculturale ha presumibilmente sia vantaggi che svantaggi: tra i vantaggi vi è una maggior accessibilità del sapere, che è sempre più facilmente reperibile, anche senza dover necessariamente ricorrere allo specialista. Appena si sospetta di avere una malattia, infatti, la prima tentazione è quella di consultare il web per capire di cosa si tratta, talvolta però rischiando di commettere errori di valutazione, di ingigantire un problema o sottovalutare sintomi di una certa entità. Ci si affida, quindi, spesso molto di più a internet, al “passaparola”, anziché al medico o allo specialista. Questa tendenza è socialmente così diffusa, da aver dato spunto ad alcune società di marketing specializzate nel creare “false opinioni” sul web, allo scopo di orientare il potenziale cliente nella scelta. Questo fenomeno così rilevante può dunque costituire una variabile in grado di influenzare l’esito di un trattamento o creare particolari aspettative rispetto a un determinato farmaco?
L’esperienza clinica oggi porta a confrontarsi con persone che sempre più spesso arrivano a chiedere una consulenza al professionista già muniti di una serie di diagnosi, generate sulla base di informazioni raccolte dalla rete; spesso però queste informazioni alimentano una tendenza ipocondriaca o denegatoria e dunque anziché aiutare a fare chiarezza rispetto al sintomo, rischiano di confondere i piani, generando vissuti di vero e proprio panico o di negazione della malattia[9]. Entrambi questi atteggiamenti sono purtroppo estremamente disfunzionali perché non permettono alcun movimento e rischiano di ostacolare fortemente il processo di cura. Un buon clinico, in questi casi, ha il compito di rimettere in discussione questi saperi “già saputi”, senza dare per scontato che le diagnosi che il paziente si porta dietro abbiano necessariamente un fondamento (soprattutto se provengono da internet), tuttavia prestando ascolto anche a queste, a maggior ragione se la persona si identifica molto in esse. In questa fase risulta estremamente importante per il clinico osservare bene come il paziente parla di sé e del suo problema e come ciò si riflette nel suo modo di percepirsi: spesso già in questo primo impatto si racchiude un insieme estremamente complesso e variegato di elementi, che può fornire una chiave d’accesso al mondo interno della persona.
Nella maggior parte dei casi, purtroppo, nell’affidarsi a questo sapere precostituito (sia esso quello della rete o di altri contesti altrettanto plasmanti), viene a mancare la capacità di entrare in contatto con i propri vissuti emotivi e corporei, focalizzando la propria attenzione su cosa effettivamente sta accadendo nel corpo o nella mente. Questo genera uno stato definito “confusione somatopsichica”, che frequentemente è alla base del sintomo stesso e ne alimenta l’escalation emozionale. Fra gli scopi del lavoro, in questi casi, vi è quello di aiutare il paziente a guardare con altri occhi il proprio problema, per comprendere quanto c’è di psichico e di somatico nel sintomo che lamenta, per poi progressivamente condurlo alla costruzione di una mappa interpretativa che lo orienti nel comprendere le cause della sua sofferenza, gli elementi scatenanti e le possibili vie per ritrovare un senso di benessere (Scognamiglio, 2016).
In conclusione, i fenomeni sociali che abbiamo messo in evidenza in quest’articolo ci spingono a confrontarci con una condizione dove sembra essere sempre più complesso stabilire “legami che curano” (Onnis, 2010): oggi il transfert, ovvero l’“aspettativa anticipatoria” della persona che chiede aiuto (Freud, 1912), tende, come abbiamo visto, a disperdersi sempre di più su altri fronti (internet, tv, figure terapeutiche complementari ecc.), rendendo estremamente difficoltoso per il paziente affidarsi a un singolo terapeuta (sia esso medico o psicologo) e conseguentemente altrettanto complesso per il clinico condurre la cura in un panorama così incerto. L’investimento affettivo si sposta dunque sempre di più sull’oggetto (es. farmaco), sull’appartenenza a comunità virtuali (es. web) o su una ricerca quasi compulsiva di risposte terapeutiche differenti, piuttosto che sull’intimità che si può andare a costituire in una specifica relazione terapeutica. Ne sono un esempio comportamenti, come quello di “doctor shopping behaviour”, che indica l’abitudine a rivolgersi contemporaneamente a più figure professionali diverse per il medesimo problema di salute; quest’attitudine, oggi molto comune tra i pazienti, non garantisce tuttavia di acquisire reali conoscenze sull’argomento ma si traduce spesso in una vera e propria peregrinazione, che non aiuta realmente a costruire un sapere su di sé.
In questo panorama sociale, il modello dell’Istituto di Psicosomatica Integrata ritiene estremamente importante l’osservazione e lo studio di tali fenomeni di massa perché ci portano a riflettere su come si possa costituire un transfert oggi, in un contesto dove il corpo è senza dubbio in primo piano nella cura: un corpo che necessita una risposta immediata (sia essa il farmaco o il web) e che concede poco tempo al clinico per porsi in una logica alternativa. Per questa ragione, il nostro modello clinico ha nel lavoro d’équipe un suo punto di forza, poiché permette alla persona di sentirsi incluso in una dimensione comunitaria e di ridurre fenomeni di dispersione, che sarebbero altrimenti molto frequenti, sulla base di quanto detto precedentemente; la persona può infatti avere contemporaneamente, all’interno dell’equipe, più riferimenti con cui dialogare, senza essere costretto a rivolgersi altrove e mantenendo al contempo un senso di coerenza terapeutica, che a nostro avviso, è la chiave di un percorso integrato. I diversi specialisti presenti in Istituto nelle sue varie sedi, infatti, pur avendo competenze diverse (psicologi, psicoterapeuti, osteopati, naturopati, medici, educatori ecc.), condividono step formativi comuni e operano in stretta sinergia, in un confronto assiduo e continuo, al fine di garantire alla persona un lavoro coerente e il più possibile efficace sia sul piano emotivo che corporeo. Al contempo, un approccio di questo tipo permette di tenere fortemente in considerazione nella cura proprio le logiche del corpo (Scognamiglio, 2016), che possono necessitare in alcuni casi di muoversi su piani differenti da quelli psicologici, necessitando talvolta un supporto strutturale osteopatico, fisioterapico, nutrizionale, farmacologico, medico o di altro tipo, che però metta in primo piano chi è la persona (e non solamente il sintomo di cui soffre), mantenendo una connessione con la sua sfera emotiva e tenendo contodi come corpo e mente si possano influenzare reciprocamente.
Bibliografia
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De Craen A.J., Tijssen J.G., De Gans J., Kleijnen J. (2000), Placebo effect in the acute treatment of migraine: subcutaneous placebos are better than oral placebos. Journal of Nueurology. CCXLVII, 3, pp. 183-188.
De Judicibus D. (2011), Effetto placebo nella pubblicità. L’Indipendente.
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Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali. L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale Gennaio-Settembre 2013. Roma: Agenzia Italiana del Farmaco, 2014
Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali. L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale Gennaio-Settembre 2015. Roma: Agenzia Italiana del Farmaco, 2016
Osservatorio Nazionale sull’impiego dei Medicinali. L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale Gennaio-Settembre 2016. Roma: Agenzia Italiana del Farmaco, 2017
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Scognamiglio R.M (2016), Psicologia Psicosomatica. L’atto psicologico tra codici del corpo e codici della parola. Franco Angeli, Milano.
Per approfondimenti:
Scognamiglio R.M. (2002), Pharmakon e atto analitico. Approccio psicodinamico al disturbo psicosomatico, http://psychomedia.it/pm/answer/psychosoma/scognamiglio1.htm
http://www.kalositalia.it/download/ricerche_biologico.pdf
[1] Morbe (2012), Le generazioni dell’oblio
[2] A questo proposito si legga anche “LA MENTE COLLETTIVA – Transculturalità ed ecologia dell’interdipendenza: un approccio metodologico allo sciamanesimo yoruba” (Scognamiglio, 2012).
[3] Nei paesi anglosassoni esistono espressioni usate per esprimere stati emotivi, che rimandano a colori ben precisi e, in particolare, al blu: ad esempio, l’espressione “to have the blues” significa “essere depresso”, mentre la depressione post-partum viene definita maternity blues (Saita e Fenaroli, 2006).
[4] In effetti, l’Oxford English Dictionary elenca sotto la voce “blue” una lunga serie di possibili traduzioni, tra loro molto diverse: “in preda a paura, sconforto, ansia”, “depresso, scoraggiato, demoralizzato”, ma anche “indecente”, “osceno”. A sostegno di questi differenti significati, vi sono espressioni inglesi, quali “blueness”, che può significare “mancanza di tatto” o “indecenza”, mentre, al contrario, l’epiteto “blue nose” può essere attribuito a chiunque sia eccessivamente puritano. (Moerman, 2002).
[5] Nel questionario sono stati presentati farmaci e psicofarmaci unitamente a integratori energetici e prodotti alimentari di uso comune (es. pasta, yogurt, caffè ecc.): i farmaci e gli psicofarmaci rappresentavano la condizione sperimentale, gli integratori energetici e i prodotti alimentari costituivano invece il controllo, per verificare se l’effetto “brand” si sarebbe esteso anche a quest’ultimi. Gli integratori sono stati scelti come stimolo, in quanto parzialmente assimilabili ai farmaci, poiché anch’essi rimandano a un’idea curativa e risolutiva di determinati malesseri fisici, come, ad esempio, mal di gola, stanchezza, spossatezza; per questo motivo sono stati pensati al centro di un gradiente, che parte dal vero e proprio farmaco fino ad arrivare al prodotto alimentare.
[6] Il 46% di preferenze per il brand contro il 54% di preferenze per il non brand.
[7] Il 76% di scelte Oki contro il 24% di scelte Ketropofene; il 64% di scelte Moment contro il 41% di scelte Ibuprofene.
[8] Il 73% di risposte Oki contro il 23% di risposte Ketoprofene; il 62% di risposte Moment contro il 38% di risposte Ibuprofene.
[9] La negazione di malattia è una strategia difensiva che Pilowsky (1986) ha incluso nel “comportamento abnorme di malattia”; egli ha definito tale comportamento come la persistenza di un modello disadattivo di percepire, valutare e rispondere allo stato di salute, nonostante il fatto che il medico abbia fornito una spiegazione lucida e accurata della situazione e abbia fornito suggerimenti su come gestirla.