LA FRITTURA DEL CALAMARO.

Un dilemma ai tempi della Gamification.

di Riccardo Marco Scognamiglio

PSICOLOGIA PSICOSOMATICA – 44 – PUBBLICATO IL 23 GENNAIO 2023

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IL DILEMMA DEL CALAMARO

La nostra civiltà occidentale, fin dai tempi di Talete (VI a.c.) e Pitagora (V a.c.), è cresciuta sulle fondamenta di quadrati, cerchi e triangoli in tutte le loro declinazioni e dilemmi: dalle geometrie esoteriche dell’imperatore Adriano, alle sacre architetture delle cattedrali gotiche, dai simboli alchemici alla filosofia ermetica e massonica. Mettere insieme cerchio e quadrato ha sempre rappresentato lo sforzo disperato di conciliare due opposti, ponendo in evidenza che ogni tentativo di integrazione non è senza resti, come rappresentato dal dilemma matematico della quadratura del cerchio.

Non è da meno l’Oriente nell’architettura induista e buddista, dai templi agli yantra, fino al celebre dipinto dei primi del ‘800, del monaco zen Sengai Gibon (Fig.1), in cui “L’Universo” si rappresenta in una delicata e minimalista compenetrazione delle geometrie che esprimono al contempo la loro inassimilabilità. Quadrato, cerchio e triangolo devono dunque essere forme primordiali che hanno la funzione di riorganizzare la mente. Semi fondativi del pensiero umano che guarda il mondo. Ma che in Squid Game, quadrato, cerchio e triangolo fossero le componenti del “gioco del Calamaro” apre proprio a un dilemma.

Il Calamaro, gioco “innocente” dell’infanzia, di fatto ricostruisce un microcosmo simbolico dei miti primordiali della sopravvivenza, in cui si gioca il grande dilemma dell’uomo contro l’uomo. Non smetteremo mai di chiederci, infatti, se l’essere umano è animato fondamentalmente dalla we-ness (Trevarthen, 1979) – cioè dall’essere per e con l’altro, o si confronta continuamente con quella fatidica pulsione di morte che in Freud non è pura aggressività, ma un’ineluttabile tendenza all’erosione (Freud, 1920). È incredibile come, dopo Freud, si sia persa quella misteriosa riflessione filosofica per cui l’uomo è costantemente in tensione non solamente fra due principi solo in apparenza antinomici, bensì complementari: principio di piacere e principio di realtà (Freud, 1911; 1915); ma, e qui sta l’enigma, anche rispetto a qualcosa che rompe le regole, che va al di là di ogni principio e che diventa un ineluttabile sistema erosivo nientificante. Riflessione che Freud, a suo modo, media proprio da quell’oriente filosofico filtrato grossolanamente dalle correnti teosofiche che penetravano la Vienna di fine ‘800, da cui ipotizza un “principio di Nirvana” come qualcosa in cui i conti basati esclusivamente sulla Libido come forza vitale propulsiva dell’essere umano non tornano.

Nella svolta degli anni ’20 del sistema freudiano, si complicano notevolmente le cose con questa faccenda di qualcosa che si sottrae a dei principi logici: sembrerebbe, infatti, che il sistema complementare dei due principi e il suo “al di là” siano a loro volta connessi da una proprietà di disgiunzione inclusiva. Sum “aut” non sum, dunque, essere o non essere? Aristotelicamente, il dilemma si risolve per logica in una disgiunzione esclusiva: o si è o non si è, tertium non datur, non ci sono altre possibilità. Amleto, tuttavia, che è più freudiano che aristotelico, sospende il dilemma in una possibilità inclusiva: sum “vel” non sum? Forse si può essere e, al contempo, non essere. Questo ci precipita al centro della logica stessa della tragedia in cui non si hanno risposte ma solo domande, e in cui l’eroe o gli eroi, stagliati su uno scenario di eccidi, rimangono sospesi nell’enigma. Anche nella nostra cultura giudaico-cristiana ci troviamo confrontati nei miti primordiali fin da subito col tema del tradimento, della separazione e della lontananza. Il paradiso perduto è subito seguito dalle vicende dell’umano mors tua vita mea. Caino e Abele abitavano probabilmente il mondo del Calamaro, destinando le future generazioni umane al grande dilemma etico: antinomia fra bene e male? O complementarità? O, addirittura, compenetrazione?

Squid Game è attraversato, dalla prima sino all’ultima scena, da questo irresolubile dilemma.

GIOCATORI O GIOCATI?

Persistono isole di cultura umana come le stagioni teatrali della Scala, che continuano a succedersi in parallelo a Netflix e ai videogames. Il 2021, per esempio, è stato un anno interessante, per il celeberrimo palcoscenico milanese, l’anno di Macbeth di Verdi con la discussa regia di Davide Livermore e la scenografia di Giò Forma e D-Wok. Ne faccio qui riferimento perché le scelte registiche e scenografiche sono sorprendentemente in tema: ambientazione urbana distopica, folle che attraversano strade metropolitane munite di cellulare e, soprattutto, un’uniformità dei costumi da cui si stagliavano solo quelli dei protagonisti. Un richiamo all’ipermodernità di cui mancavano solo le mascherine anti Covid-19.

Di fatto, anche qui si poteva profilare come grande cornice di questa corsa al massacro, tipico di tutte le tragedie, un Calamaro, a ricordarci qual è l’eterno gioco in cui siamo tutti giocati: il gioco dell’Altro. In fondo, Macbeth, Amleto, Otello, ma anche Edipo, Antigone, Elettra e tutti i grandi eroi tragici sono sempre catturati nel gioco dell’Altro: si credono giocatori ma, in realtà, sono solo giocati dal fato o da una bizzarra “invidia degli dèi”, lo φθόνος τῶν θεῶν.

person about to catch four dices

Seong Gi-hun, il protagonista di Squid Game, è giocato dai meccanismi del gioco d’azzardo quanto da quelli del Calamaro, e lo stesso vale per gli altri 455 concorrenti a partire da Cho Sang-woo, suo amico d’infanzia, il suo Caino. Ma anche l’anziano Oh II-nam (giocatore 001), grande eroe tragico, non fa eccezione. Da occulto demiurgo, è preso nel dilemma fra essere giocato dal tumore o giocarsi la vita a biglie: ultimo grande slancio di seeking, dove si consuma l’apice etico di questa tragedia ipermoderna. Anche in questo preciso punto rimane in sospeso il dilemma fra il baro e chi lo subisce, fra chi gioca e chi è giocato. Perché, in fondo, il demiurgo accetta di morire nella sua incarnazione umana da ggambu, l’intimo e fidato amico che si immola per l’altro, metafora cristica o mitraica del Dio che si fa uomo e risorge. Come ci ricorda nella scena finale sul letto di morte, anche Dio, il grande master gamer, ha bisogno di giocare alla vita, ha bisogno anche lui dell’altro. Ulteriore esempio di disgiunzione inclusiva. Il punto tragico è quello di una flessione umana nel contesto disumano globale e nel cinismo del demiurgo. Oh II-nam si commuove e concede la vittoria al baro Seong Gi-hun, camuffandosi nella dissimulazione: “Ti faccio credere di non avere capito che tu stai barando, affinché tu non capisca che il vero baro sono io. Io che posso decidere tutto, anche di morire per finta”.

Questa deriva teologica è pertinente nella misura in cui si guarda Squid Game nel contesto di un cluster di produzioni cinematografiche e televisive che hanno come denominatore comune, oltre allo stile splatter, una dimensione di nonsense. Ne ricordo alcune: il similare film del 2014 di Takashi Miike, As the Gods Will (vedibile in streaming), da cui sembra che Squid Game abbia preso ben più di un’ispirazione. Nonché la serie giapponese del 2020 Alice in Borderland (Netflix) di Shinsuke Sato, basata su un manga di Haro Aso. In As the Gods Will, che ricalca anch’esso l’omonimo manga in 5 volumi di Muneyuki Kaneshiro, il grande Calamaro, come una sorta di mappa del mondo, è sostituito da un cubo, ossia un quadrato alla terza potenza, che rappresenta il campo di battaglia tragico da cui sopravvivranno solo gli eletti “figli di Dio”, eroe e antieroe, i Caino e Abele del mito ipermoderno. Un’eco di Squid Game la ritroviamo anche nello sforzo sudcoreano Hellbound del 2021, ispirato a un webtoon, dove Dio stesso, fuor di metafora, diventa nelle mani di potenti fanatici un prodotto mediatico che decide in diretta le sorti dei peccatori.

two silver chess pieces on white surface

Si tratta, in tutti i casi, di rappresentazioni di un mondo che, avendo perso ormai ogni concetto di verticalità, si trova brutalmente confrontato con qualcosa che viene proprio dall’alto a esercitare incomprensibilmente il suo capriccio, in una sorta di spaventosa immagine allo specchio della miseria morale umana. La forma degradata del principio alchemico “come in alto, così in basso”.

Squid Game, con alcune differenze, ricalca questo cliché della tragedia ipermoderna che ha per struttura un’invisibile mise en abyme, lo specchio nello specchio. Qui si rivela definitivamente, solo nell’ultima scena. Infatti, nel gioco finale, non quello del Calamaro, ma quello del rapporto con la morte cui nemmeno il demiurgo può sottrarsi, si rilancia il dilemma: esiste ancora l’umano e la fiducia nell’uomo?

Anche noi, spettatori di Squid Game, come sempre in ogni tragedia, oltre al demiurgo, al master gamer e a tutti coloro che si credono agenti del loro gioco, siamo dentro lo stesso scenario. Cosa che in fondo è sempre stato nello spirito della tragedia, come Aristotele insegna. Forse è da qui che per alcuni emerge il disgusto, il rigetto o il diniego. Tuttavia, anziché scandalizzarci, dovremmo impararne qualcosa. Non sono solo i VIP in Squid Game che non sanno più che emozioni provare per rompere la morsa della noia; l’umanità, in fondo, ha sempre preso una posizione voyeuristica della sofferenza altrui. In Hellbound, la condanna a morte diventa un fenomeno mediatico. Ma anche Foucault (1975) in Sorvegliare e Punire, quando descrive la funzione politica dell’esibizione pubblica delle torture nel XVII secolo, parla di “splendore dei supplizi”.

Oggi, lo “splendore dei supplizi” lo ritroviamo in quel raccapricciante fenomeno collettivo per cui, di fronte a un’aggressione pubblica, filmiamo con lo smartphone, invece di prestare soccorso.

photo of person peeking through the hole

Non è più il tempo della parabola dell’“uccisione di un mandarino cinese”, in cui a uno sconosciuto mandarino cinese può essere tolta per gioco la vita, pigiando semplicemente un bottone. Metafora che attraversa molti pensatori da Adam Smith (1759) a Diderot (1778), secondo i quali la distanza, nel tempo o nello spazio, riduce il sentimento morale fino ad annullarlo. Nell’epoca del voyerismo sollecitato dai social e da YouTube, non vale più la regola “occhio non vede, cuore non duole”, quanto, piuttosto, quella di vedere senza doglie e senza duolo. Siamo anche distanti dai famosi esperimenti dello psicologo Stanley Milgram (1974), tesi a dimostrare come l’obbedienza all’autorità giustifichi la messa in atto di azioni a danno di altri umani, al di là delle convinzioni etiche e di sentimenti di vicinanza al prossimo. Come scrive il filosofo Byung-Chul Han (2020), nell’attuale società senza dolore, viviamo una pericolosa anestesia permanente che, possiamo dire, ci rende tutti, al contempo, insensibili voyeur e mandarini cinesi.

In fondo, tutti noi che guardiamo e filmiamo siamo contemporaneamente guardati e filmati dentro il Panopticon[1] della Gamification.

GAMIFICATION: È IL CALAMARO CHE CI FRIGGE O SIAMO NOI CHE LO FRIGGIAMO?

In un’intervista a El País, il filosofo Han, a proposito di Squid Game, ha affermato che la “dominazione totale arriva quando una società è solo impegnata a giocare”. In questi ultimi trent’anni, abbiamo potuto osservare clinicamente il graduale e intensivo svuotamento della soggettività. Una vera e propria messa sotto scacco attraverso l’intensificarsi di uno specifico processo di manipolazione digitale, che si definisce Gamification (Scognamiglio, 2021). Concetto che ho ripreso nel mio intervento alla 5a Giornata Nazionale sulle Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo[2], l’ennesima tappa di una riflessione che porto avanti da circa 30 anni nel tentativo di chiarire quanto l’esplosione della tecnologia digitale abbia stravolto il mondo, e con esso anche la fenomenologia clinica, di cui le dipendenze tecnologiche sono solo una minima parte.

Il termine Gamification è stato introdotto nel febbraio 2010 da Jesse Schell, un famoso game-designer americano, alla “Dice Conference” di Las Vegas[3]. Questo termine mette bene in evidenza come tecniche di game design e di game engineering vengano applicate a contesti differenti, per esempio, social network, siti d’acquisto, betting online, ecc. La Gamification è concepita per essere una “tecnologia da assuefazione” e per creare dipendenza psicologica. L’aspetto impressionante è che tutto questo avviene senza l’aiuto di azioni di marketing o pubblicità che possano potenziarla, proprio per la sua natura occulta.

Presupporre che siamo tutti agenti è l’illusione a cui ci condanna la Gamification. Le nostre interazioni sui social, i nostri Like, le immagini che carichiamo e i videogames che scarichiamo gratuitamente sono tutte azioni che noi rivolgiamo al Web sotto forma di tributo al demiurgo. Non possiamo non volerlo fare!

Il processo di Gamification attraversa quattro step:

  • L’utente sviluppa uno stimolo inconscio legando, senza accorgersene, le proprie emozioni alla routine di utilizzo di un prodotto.
  • Quando si trova a dover acquistare un nuovo prodotto dello stesso tipo, tende senza esitazione a rivolgersi alla stessa azienda. A questo livello, si creano i profili commerciali pop-up.
  • Per aumentare le probabilità che un utente possa intraprendere proprio quell’azione di acquisto, lo sviluppatore deve renderla la più semplice possibile, rinforzandola tramite il meccanismo di ricompensa variabile.
  • Alla fine, l’utente è sollecitato a farsi promotore di un impegno. Una sorta di ringraziamento attivo per aver ottenuto del “benessere”: un voto, un Like, un’iscrizione a un gruppo, dei dati personali, una sua opinione, un acquisto che migliori l’esperienza successiva, ecc.

Questo meccanismo non vale esclusivamente per l’acquisto di un prodotto, ma sorregge le logiche d’interazione col Web, social network in primis, che sono ormai un filtro obbligato fra sé e l’altro reale. La Gamification si colloca specificamente nella fase di consolidamento del Web 2.0. Il Web 1.0 si caratterizzava per una mobilità ridotta e un rapporto minimo e unidirezionale fra autori e utenti. Era il regno del download, esempio della verticalità in cui l’utente era un consumatore passivo.

Con l’avvento del Web 2.0 nel 2004, i rapporti di verticalità si spezzano, passando a una dimensione di people to people, peer to peer: “A collaborative space where people can interact”, come disse Tim Berners-Lee, co-fondatore del World Wide Web, in un’intervista podcast per IBM nel 2006. Nel 2.0 tutti ci sentiamo padroni del Web, in un’utopica orizzontalità che attraverso i social network alimenta la grande illusione della E-democracy, intesa come un totale azzeramento della verticalità. Ne abbiamo un chiaro esempio nella seconda puntata di Squid Game, quando, facendo appello alla terza clausola dell’accordo (“Se la maggioranza accetta di terminare i giochi, tutti verranno rimandati a casa”), l’assemblea vota a favore della sospensione del gioco. Tutti sono convinti della possibilità di una democrazia diretta. Anzi, il voto determinante è proprio del giocatore 001, l’anziano demiurgo.

Risultato: una volta tornati nel mondo reale, la stragrande maggioranza fa “volontariamente” ritorno al gioco, secondo le aspettative dichiarate del master gamer. Non si tratta, dunque, di una votazione pilotata, ma di un sofisticato sistema di manipolazione per cui “Non puoi non voler giocare!”. Nel mondo della Gamification, la democrazia è solo un’illusione commerciale che maschera la dissimulata e “giocosa” dittatura del Web. Ecco la realizzazione perfetta del Panopticon, che la visionarietà di Foucault (ibid.) legge come l’applicazione di un potere che non è più calato dall’alto, quello che io chiamo “perdita della verticalità”, ma pervade la società da dentro, con forme di controllo interiorizzate. Squid Game esprime tutto questo in una forma esponenziale e grottesca in cui giocatori e giocati si confondono.

DI CHE GIOCO SI TRATTA?

Mentre scorrono degli idilliaci fotogrammi della vita di San Andreas, l’equivalente immaginario della California, accompagnate da una piacevole musica, una voce fuori campo commenta: “Perché mi sono trasferito qui? Probabilmente per il clima. Oppure, boh, forse, per quella sensazione, quella magia. Lo vedi nei film. Volevo smetterla con quello che facevo, sai, con quel tipo di lavoro. Essere un bravo ragazzo per una volta, un uomo di famiglia. Quindi, ho comprato una bella casa, sono venuto qui, mi sono rilassato e pensavo di poter essere un papà come tutti gli altri. I miei figli sarebbero stati come quelli della TV. Avremmo giocato a palla e preso il sole…”. Questo è l’inizio del trailer di Grand Theft Auto V (GTA V)[4], un famoso videogame del genere “avventure dinamiche” che spopola, nelle sue diverse edizioni, fra i giovani (e non solo) da più di vent’anni. Il trailer continua con una frase “… ma poi sai come vanno le cose” che innesca un improvviso cambio di scenario: la musica si fa più assordante, il ritmo aumenta e le immagini diventano più cupe e violente. Improvvisamente, ci troviamo confrontati con l’altra faccia della verità. Ma come vanno le cose?

Il successo di GTA risiede in una sua particolarità: ciò che ti intrattiene nel gioco è la possibilità di non conformarsi alle regole del gioco stesso. Sebbene il gamer possa compiere delle missioni e raggiungere degli obiettivi, finisce inesorabilmente a bighellonare per le strade della città, a investire con la macchina civili o a uccidere prostitute (per poi eventualmente vantarsene caricando il video su YouTube). GTA mette in risalto proprio questa deriva ineluttabile: anche se lo si desidera, nella vita non è possibile essere buoni o cattivi. Perché poi le cose vanno… “al di là del principio[5]”. È questa erosione prodotta dal vuoto, dal nonsense di una “banalità del male” che sfugge a molti genitori che ancora pensano che GTA sia come giocare a indiani e cowboy. Qui, invece, non ci sono ruoli o storie, ma una dimensione anonima e caotica in cui il gioco “al di fuori del giocare” non finisce mai.

È qui dove il principio di piacere è stato assorbito nel suo al di là. La fatidica pulsione di morte, da cui siamo partiti con Freud, non è tanto da vedere nella pura aggressività quanto nel nonsense e nel pericolo che questo nonsense s’infinitizzi, continui a replicarsi compulsivamente. Che è poi il tema della clinica delle dipendenze. Il patologico del gioco d’azzardo, ad esempio, per rimanere all’interno del tema, potremmo concepirlo nel fatto che l’unico calcolo che il gambler fa è con il nonsense in quanto tale, che non riesce mai a ridurre a senso. L’aleatorietà del nonsense è il motore della Gamification, è ciò che spinge continuamente a rilanciare il gioco. È in questo punto di vuoto del “gioco della vita” che s’inserisce Squid Game. Al di fuori del gioco, potrebbe non esserci più un mondo in cui poter vivere. Non rimane altro che far coincidere il gioco con la vita. Anzi, solo nel gioco si ritorna a vivere potendo distinguere l’umano dal disumano. Il premio si rivelerà un puro pretesto. Il punto non sono i soldi, non è l’arricchimento, ma il fatto che dal povero al ricco nessuno sa cosa farsene veramente dei soldi, quando a mancare è la possibilità di un mondo. In fondo, è la stessa filosofia dei giovani isolati sociali fino agli hikikomori.

ELOGIO DELL’ESITARE

L’intensa scena finale in cui l’anziano Oh II-nam si confida sul letto di morte a Seong Gi-hun produce uno strano resto: quello del senso di colpa. Il protagonista si ribella rigettandolo sull’anziano, ma di fatto non ne coglie la valenza morale: la colpa produce quello strano confine fra umano e disumano. E forse questa mancanza sarà la ragione di una successiva serie. Il grande dibattito su Squid Game è sembrato focalizzarsi sul tema della violenza. Probabilmente, lo splatter degli altri prodotti filmici dello stesso cluster non ha prodotto la medesima reazione. Se quelli sono, infatti, ispirati a manga, un mondo nel quale tutto può essere follemente gratuito e incomprensibile, Squid Game segue uno spietato, logico e “realistico” disegno finalizzato. Lo scandalo per la violenza stupisce se non ci si accorge che nel mondo di oggi è assai più pervasiva l’angoscia, sinonimo di una violenza psichica fuori rappresentazione, “fuori principio”. Se la colpa è il segno per cui abbiamo interiorizzato l’altro, quando perdiamo di vista i rapporti con questo altro siamo condannati a essere pedine di un gioco psicotico.

Qui si fa decisiva la funzione dell’adulto. Si fa molto dibattito sull’alternativa social vs socializzazione in un preoccupato riferimento alle generazioni più giovani. Ma sfugge l’elemento che possa fare da tramite fra queste due dimensioni relazionali. La funzione dell’adulto viene qui presa in causa nella sua perdita di autorevolezza nel mediare i contenuti dell’esperienza (Scognamiglio & Russo, 2018). Mio padre, quando ero bambino, mi raccontava, come fosse una favola, di Macbeth. Ma di certo non mi ricordo delle mani sporche di sangue dei coniugi Macbeth, né delle stragi di palazzo. Mi ricordo invece, ancora, della magia della foresta di Bimam come protezione dalla minaccia del sopruso. In un muro di un paesino di tre case della Basilicata ho letto questa scritta: “Le favole servono a insegnare che anche i draghi possono essere sconfitti”. Forse oggi abbiamo ancora bisogno del tragico, della sua funzione di metaforizzare valori etici. La tragedia soprattutto questi valori li mantiene in una sorta di vacillamento. Non è fatta di “aut… aut”, ma di vel. Questo mette al lavoro chi guarda e, inoltre, inocula il virus del dubbio.

Nell’epoca degli one shot, il vacillare, il dare la precedenza all’altro, come nel gioco della passerella di vetro in Squid Game, può essere l’arma vincente. Quello che sembra essere un handicap o uno svantaggio, per Seong Gi-hun si rivela il viatico che lo conduce alla meta finale. La debolezza rivela una forza. Il “principio” da solo non basta, non bastano le regole chiare e semplici del gioco di Oh II-nam. Forse l’umano si situa in questo spazio fra i “principi” e il loro “al di là”: in questo spazio, il libero arbitrio si gioca nell’etica. Se le regole possono arrivare a costituire una sicurezza morale, l’etica si colloca nel dubbio.

Come adulti, forse, nel ruolo di donatori di senso, dovremmo insegnare ai nostri figli un po’ d’incertezza, insegnare loro a saper esitare, anche se non è così eccitante.

“(…) la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza” (Leopardi, 1898, p. 1655).


NOTE

[1] Il Panopticon è un modello di carcere ideale progettato nel 1791 da Jeremy Bentham. L’idea era di permettere a un unico sorvegliante di osservare tutti i carcerati impedendo loro di capire se fossero controllati. Bentham auspicava, così, di cambiare la mente del detenuto attraverso l’esercizio di un potere visibile, ma inverificabile.

[2] Il mio intervento ha avuto come titolo: “Gamification: giocatori o giocati?”.

[3] Si tratta dell’intervento “Design outside the Box”.

[4] https://www.youtube.com/watch?v=iQ-8LXpWMeI

[5] Vedi ivi il primo paragrafo “Il dilemma del Calamaro”.

BIBLIOGRAFIA

Aristotele (334-330 a.c.). Poetica. Bari: Laterza, 1998.

Bentham J. (1791). Panopticon or the inspection-house. London: T. Payne (trad. it Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983).

Diderot D. (1796). Il fatalista e il suo padrone. Milano: Rizzoli, 2015.

Foucault M. (1975). Surveiller et punir: Naissance de la prison. Gallimard: Paris (trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Torino: Einaudi, 1976).

Freud S. (1911). Precisazioni su due principi dell’accadere psichico. Opere, Vol. 6. Torino: Bollati Boringhieri, 1986.

Freud S. (1915). Metapsicologia. Opere, Vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri, 1986.

Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere. Opere, Vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri, 1986.

Han B-C. (2020). Palliativgesellschaft: Schmerz heute. Berlin: Matthes & Seitz (trad. it. La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite. Torino: Einaudi, 2021).

Leopardi G. (1898). Zibaldone. Milano: Mondadori, 1996.

Milgram S. (1974). Obedience to Authority: An Experimental View. New York: Harper & Row (trad. it. Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale. Torino: Einaudi, 2003).

Scognamiglio R.M. (2021). L’inconscio digitale: la sfida di una clinica senza soggetti. Psicoterapia e Scienze Umane, 55 (2): 205-226. 

Scognamiglio R.M. & Russo S.M. (2018). Adolescenti Digitalmente Modificati (ADM). Competenza somatica e nuovi setting terapeutici. Milano: Mimesis.

Smith A. (1759). Teoria dei sentimenti morali. Milano: Rizzoli, 1955.

Trevarthen, C. (1979). Communication and cooperation in early infancy. A description of primary intersubjectivity. In M. Bullowa (a cura di), Before speech: The beginnings of human communication. London: Cambridge University Press.


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