DIARIO DI UN VIAGGIO PSICOSOMATICO

Riflessioni e considerazioni durante la lettura di “STORIA DI UN CORPO” di Daniel Pennac

di Elisa Chiara Minetto

Psicologia Psicosomatica – 25 – Pubblicato il 31 Dicembre 2013

(Articolo in PDF)

Il corpo percepisce e riconosce, ha un suo codice di comunicazione. È la fisicità ad accompagnare l’io narrante alla scoperta del mondo e della vita attraverso le sensazioni, i dolori e le gioie della propria carne. Con Pennac comprendiamo che è proprio nel momento in cui si inizia ad ascoltare, in cui ci si sintonizza con questo logos che nasce un’unica corrispondenza tra io e corpo, rendendo possibile una comprensione superiore, globale ed integrata.

diario-2«Il corpo è un’invenzione della vostra generazione, Lison. Almeno per l’uso che se ne fa e per lo spettacolo che ne viene dato. Ma, sui rapporti che la vita stabilisce con esso in quanto scatola di sorprese distributore di deiezioni, oggi il silenzio è altrettanto fitto che ai miei tempi. A ben guardare, non c’è nessuno di più pudico degli attori porno, più smutandato degli artisti di body art più scarificati. Quanto ai medici (a quando risale la tua ultima visita?), è molto semplice: oggi il corpo non lo toccano più. A loro importa soltanto il puzzle cellulare, il corpo radiografato, ecografato, tomografato, analizzato, il corpo biologico, genetico, molecolare, la fabbrica di anticorpi. Vuoi che ti dica una cosa? Più lo si analizza, questo corpo moderno, più lo si esibisce, meno esso esiste. Annullato in misura inversamente proporzionale alla sua esposizione».

Questo passo ci porta immediatamente al punto nodale del nuovo libro di Daniel Pennac, Storia di un corpo. Il titolo, per quanto eloquente, trattiene in sé un enigma: può un corpo raccontarsi? E se potesse, come lo farebbe? Chi potrebbe essere il narratore?

Pennac non si sottrae alle curiosità del lettore e dà vita a un impareggiabile diario in cui il corpo “parla”, divenendo la fonte da cui prende forma il soggetto e la sua biografia. Storia di un corpo si rivela una “mappa psicosomatica” che ci orienta nella comprensione delle categorie cliniche relative alla fenomenologia del rapporto col corpo: inadeguatezza, obsistenza e iddità (Scognamiglio, 2012).

Ripercorreremo qui le zone salienti di questa “mappa psicosomatica” per trovare delle chiavi di accesso alla spiegazione delle categorie fenomenologiche sopra citate.

A 12 anni, 11 mesi e 18 giorni  il protagonista inizierà un intensissimo dialogo con il suo corpo che durerà tutta la vita, al grido di: «Non avrò più paura, non avrò mai più paura».

La scelta di dare spazio alla materialità del corpo cresce in lui a seguito di un’esperienza legata, appunto, alla paura: scout, a quasi tredici anni, cadde in un’imboscata, venne legato ad un albero e provò il terrore di essere divorato dalle formiche che avevano costruito un formicaio ai piedi di un pino.

Emozione di fondamentale importanza in tutto il romanzo è dunque la paura. Per come viene narrata, esplicitata in modo oggettivo nel corpo, definito «un giardino segreto, che per molti versi è il nostro terreno più comune», rimanda a una grandiosa vulnerabilità. Il corpo risponde e corrisponde a questa emozione irrazionale del bambino, al dolore della perdita dell’adulto, alla mancanza di un attaccamento sicuro nella relazione con la madre, alla malattia, all’amore e a tutto quello che crea un ingombro tale da dover essere compreso e significato. Fedele compagno di viaggio, con esso si apprende il senso dell’esistenza, poiché ad ogni domanda risponderà, si prenderà la respons-abilità di esistere, “spiegando” tutto ciò che accade senza parole, ma con un suo codice, un suo logos, che definiamo digitale [Nota 1] (Scognamiglio, 2008).

Lo stralcio della lettera che il protagonista del romanzo scrive alla figlia Lison, come introduzione esemplificativa del particolare dono post mortem introduce questa sorta di diario del corpo. In apparenza una tra le tante storie possibili della vita di un uomo, in realtà la più intima, la più profonda, che parla di lui partendo dal suo corpo. Un padre-corpo che parla alla figlia per raccontarsi, per farsi conoscere come il padre-uomo non è mai riuscito a fare.

Un inizio molto travolgente se si considera l’argomento trattato, anche perché Pennac è convinto che il corpo, seppure esibito e glorificato, sia uno degli “ultimi tabù” dei nostri tempi, una realtà di cui si tace troppo. E se nominare significa conoscere, dare una forma a qualcosa che non ne ha, è come se dietro questo tentativo di registrare l’indicibile corporeo si nascondesse probabilmente la segreta ambizione di domare l’indomabile: il controllo sul trascorrere inesorabile del tempo fino alla fine con un inno alla vita nella sua dimensione più materiale e sensoriale.

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Il corpo accompagna l’uomo-narratore aiutandolo nel processo di conoscenza e integrazione dell’essenza. La vita, all’interno del romanzo, è vissuta attraverso la tensione processuale che un uomo ha nei confronti del proprio “involucro di carne, muscoli e ossa”, in un viaggio appassionante, unico ma anche universale, perché il soggetto è anche oggetto della scrittura. C’è, infatti, una continua oscillazione tra l’io narrante e l’oggetto corpo che potrebbe essere quello di qualunque essere umano, per quanto sia lui soggettivamente a descriverne le logiche.

Emerge un approccio alla sensibilità, allo stupore, a un lasciarsi sorprendere da tutto quello che accade ogni volta che, come dice il narratore stesso «il mio corpo si è manifestato alla mia mente».

Ci sono momenti nella vita in cui il nostro corpo si fa dimenticare: non è così scontato sapere di averne uno, per la maggior parte del tempo è come se non ce ne accorgessimo. Ci siamo dentro, presumibilmente, ma non ci accorgiamo della differenza tra avere ed essere un corpo (Scognamiglio, 2012). La differenza sta nella sensibilità, nel prestare attenzione: l’ascolto di un codice, quello digitale, che nel frastuono dell’esistenza moderna abbiamo disimparato a decifrare, in un mondo in cui il corpo è visibile, individuale ed esaltato nella sua esteriorità, ma mai considerato davvero profondamente. I figli di questo tempo ipermoderno, portatori di un corpo sconosciuto, vengono così descritti da Pennac: «quei piccoli tatuati, quei piccoli portatori di piercing sono, nel senso letterale del termine, segnati da quest’epoca disincarnata».

Il narratore ci accompagna per mano attraverso nessi logici – e dialogici- tra il corpo e la mente. Per quanto egli stesso espliciti fin dall’inizio di non voler toccare argomenti troppo connessi ai «mutevoli stati d’animo», ogni descrizione attenta e minuziosa relativa a secrezioni, umori, dolori e beatitudini, è indissolubilmente legata a un’emozione, a un pensiero, alla mente: un diario dove sono espresse le eterogenee sensazioni che la «macchina dell’essere» è in grado di far provare alla persona tutta, nella sua integrità.

Così, nelle diverse fasi della vita, mente e corpo vivranno insieme, litigheranno, si prenderanno in giro, prevarranno l’una sull’altro, ma mai il legame si interromperà.

Tre eventi soltanto lo porteranno a una sorta di rottura, «come sempre quando succede qualcosa di importante», in uno stato di dissociazione dell’integrità che protegge il protagonista dall’eccessivo accumulo dell’uno e dell’altro contenitore per poi arrivare, a pericolo scampato, ad una nuova e più matura reintegrazione. Il primo è, in ordine cronologico, la guerra. Dopo un buco di due anni è così che il diario riprende il 14 Luglio del ’45, a 21 anni, 9 mesi, 4 giorni: «..durante la cerimonia ho pianto ininterrottamente, la prima cosa che voglio annotare qui sono proprio queste lacrime. […] In effetti questa mattina ho versato proprio tutte le lacrime che avevo in corpo. Sarebbe più giusto dire che il corpo ha versato tutte le lacrime accumulate dalla mente nel corso di questa inverosimile carneficina. La quantità di sé che viene eliminata con le lacrime! Una volta che l’anima si è liquefatta, si può celebrare il ricongiungimento con il corpo. Stanotte il mio dormirà».

La seconda volta è un colpo di fulmine, l’incontro con l’amore della sua vita: «la priorità non è annotare, ma vivere, il soffocamento amoroso! Non facile da descrivere se non si vuole annegare nella melassa sentimentale. Per fortuna l’amore riguarda di brutto anche il corpo».

Infine la morte. La morte del padre, la morte della dolce tata Violette, la morte dell’amico di una vita e la morte dell’adorato nipote, unite tutte in un unico grande dolore. Da qui si crea un buco profondo, sia nella stesura del diario, che s’interromperà per sette anni, sia nell’animo del narratore. Quest’ultimo spiega alla figlia: «l’osservazione del mio corpo ha perso ogni interesse. Avevo il cuore altrove. I miei morti hanno cominciato a mancarmi tutti insieme![…]i miei morti avevano avuto un corpo, ora non l’avevano più, era questo il punto, e quei corpi unici mi mancavano totalmente».

In verità tutti i passaggi della vita sfiorano la linea di confine tra il corpo e la mente, e gli anni di cambiamento sono sempre un buon motivo per questo inevitabile avvicinamento. E così a 44 anni, 9 mesi, 26 giorni, scopre che si passa «dal panico di essere troppo giovane al terrore di essere troppo vecchio, passando per la malattia dell’impotenza […]; la mente e il corpo si accusano a vicenda di impotenza, in un processo in cui regna un silenzio spaventoso».

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Un aspetto interessante che mette in luce la sottile capacità d’ascolto del protagonista si evidenzia nel considerare non solo il dolore quale “creatore” di qualcosa di estraneo che genera la consapevolezza di avere un corpo («ormai, tra il mondo e me, l’ostacolo del corpo»), ma anche il piacere che nasce dall’amore per la compagna, dalla nascita dei figli, dalla “pienezza” della soddisfazione e che spesso nella vita passa senza lasciar traccia o memoria nel corpo.

Il segno che certe emozioni imprimono sulla materia del corpo si riscontra anche quando questa si frappone tra il soggetto e un’altra persona. Possiamo definire inadeguatezza quando il protagonista subisce lo sguardo anaffettivo, rigido e freddo della madre, altrimenti adeguatezza, quale senso del rispecchiamento in un modello breve e fantasmatico nei confronti del padre o quando Violette, tata presente e accudente, presterà il suo desiderio al piccolo corpo in formazione: «Grazie a lei, grazie al suo sguardo, avevo smesso di essere il fantasma di mio padre, non sbattevo più contro i mobili, non mi perdevo più nella mia ombra, non avevo più paura degli specchi».

Scognamiglio (2012), riferendosi alla propria esperienza clinica, propone un’empirica classificazione di come “sentiamo” il corpo e di come il paziente lo racconta. L’inadeguatezza è uno dei modi in cui nella clinica i pazienti presentano il loro corpo, introducendo un processo dinamico attraverso la terzità, un’articolazione tra l’Io, il corpo e l’Altro [Nota 2]. In questo caso si tratta di un Altro specifico, ovvero lo sguardo che scinde l’Io dal corpo. Attraverso lo sguardo dell’Altro ci-si-guarda e questo produce un senso di disorientamento, in quanto il Sé soggettivo è vincolato a come l’Altro lo rappresenta: l’Altro chi sta vedendo? Cosa vede di me che sembra non funzionare? Questo è esattamente quello che sembra accadere al nostro protagonista.

Un’altra modalità attraverso cui “si sente” il corpo è il dolore, un processo di scansione che “separa” il sé dal corpo dolente, percepito come un obstaculum che oppone resistenza al neutro fluire della soggettività ordinaria contrapponendosi a sé. Tipico di questa dinamica è il meccanismo di obsistenza, cioè il passaggio dalla coincidenza improvvisa con il corpo a un livello in cui ci si trova di fronte qualcos’altro che è diverso da sé, il dolore appunto. L’obsistenza fa sentire di avere un corpo, possesso che diventa percepibile quando questo si trasforma nel luogo del male. Non s’intende il male solo come malattia, bensì in senso assoluto, provocato da qualcosa percepito come estraneo a sé, ma nello stesso tempo appartenente al corpo, emozioni comprese.

diario-5La terza modalità in cui viene narrato il disagio nella corporeità è quella dell’angoscia. Il sentire del corpo nell’angoscia è legato alla sensazione di qualcosa che si stringe addosso, qualcosa di pervasivo e che occupa tutto il corpo. Non si sente il male perché si è male. Non c’è l’obsistenza del dolore perché si è tutt’uno con il corpo: paradossalmente l’angoscia non viene percepita come un elemento estraneo, perché chi è in angoscia non riesce a posizionarsi rispetto ad essa. La complessa questione di un simile quadro clinico è il frequente bisogno di agire sul proprio corpo per potersi reperire, ricreando la dinamica dell’obsistenza attraverso il dolore. Il concetto che Scognamiglio propone per descrivere fenomenologicamente questa dimensione è quello dell’iddità, dall’id latino, che possiamo tradurre come “cosificazione”, per cui si è talmente ristretti nel corpo da coincidere con esso.

È interessante comprendere nella lettura come vari fenomeni siano individuabili attraverso codici differenziati che inseriscono il corpo, nella sua pienezza, in una trama narrativa che include una storia e delle memorie traumatiche, sedimentate in un’immagine inconscia, sotto forma di “pieghe nella carne”, di cicatrici nei tessuti, di schemi adattivi impressi nelle catene muscolo-scheletriche: una sorta di “scrittura”, insomma, nel corpo, della propria storia soggettiva (Scognamiglio, 2008).

Nelle pagine di Pennac leggiamo il tentativo di un ascolto del corpo che raramente s’incontra nella letteratura clinica di stampo psicologico o medico e che compone l’espressione di un soggetto da un punto di vista più integrato. Pennac compone quindi un romanzo a partire da una prospettiva ricca e coraggiosa, che agisce su qualcosa di universale e paradossalmente poco conosciuto, come il senso stesso di percepire e agire una corporeità. Gettando un ponte tra protagonista e lettore, abilmente costruito anche grazie all’escamotage dell’anonimato, il romanzo di Pennac restituisce all’essere umano la consapevolezza della parte del nostro sistema che dovrebbe, per sua natura piena e ponderale, godere di una significazione importante ma che, soprattutto oggi, ha perduto il suo spazio di comunicazione: il Sapere del corpo.

Storia di un corpo ci regala così la possibilità di svegliarci la mattina provando la sensazione di esserci e di sentirci fisicamente, vivi.

Note

[Nota 1] Secondo il modello Psicosomatico Integrato la soggettività si esprime attraverso due codici:

• Codice Analogico (della parola): supporto fondamentale della funzione narrativa, ad esso appartengono i processi rappresentativi e la parola è lo strumento attraverso cui vengono organizzati i significanti del discorso, in rapporto a ciò che si vuole significare.

• Codice Digitale (del corpo): è il modo in cui il corpo parla non attraverso la parola, ma sotto forma di codice binario. Si tratta di un’organizzazione comunicativa basata su codice binario e puntuale (on/off) che segue principalmente un principio di polarizzazione che interessa tanto la cellula quanto i grandi sistemi funzionali. All’interno di questo principio si osservano, in relazione a un trauma o a un deficit funzionale, fenomeni compensatori che si organizzano intorno a un Logos.

[Nota 2] Il soggetto è immerso nella struttura, è a bagno nella struttura, che lo predetermina, che lo attraversa, una struttura che Lacan chiama Altro. E in virtù di questo, l’inconscio diventa «il discorso dell’Altro». L’Altro di Lacan è il campo del linguaggio, entro le cui leggi si trova preso il soggetto. È una rappresentazione che gli è necessaria per dimostrare la dipendenza dell’uomo dalla struttura, dalla Cultura. L’Altro agisce sul bambino ancor prima di ogni possibile interazione della stessa madre e lo sviluppo del bambino avviene all’interno della struttura, da cui questo dipende.

Note Bibliografiche

  • Pennac, D. (2012). Storia di un corpo. Feltrinelli, Firenze.
  • Scognamiglio, R.M. (2012). Corpo, buchi, bordi. Seminario Clinico, Istituto di Psicosomatica Integrata, Milano.
  • Scognamiglio, R.M. (2008). Il male in corpo. La prospettiva somatologica nella sofferenza del corpo. Franco Angeli Editore, Milano.

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