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NASCITA, EVOLUZIONE E CRISI DI UN GRUPPO DI OPERATORI ALL’INTERNO DI UNA COMUNITÀ

Dal mito delle origini alla realtà dei nuovi contesti generazionali, politico-sociali: antidoti alla sofferenza dei gruppi comunitari

di Marta Vigorelli

PSICOLOGIA PSICOSOMATICA – 45 – PUBBLICATO IL 10 MAGGIO 2023

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Il tema della trasmissione psichica tra le generazioni mi è caro perché ho avuto modo di scoprire la centralità di quello che Nicolò Corigliano definisce “un vero e proprio paradigma” all’inizio della mia esperienza come coordinatore di una piccola comunità milanese pubblica per giovani psicotici, di cui vi parlerò, in cui sono stata presente dal momento della sua fondazione per 17 anni, dal 1987 al 2004. Questa scoperta è avvenuta quando ho cominciato ad occuparmi del rapporto tra questi giovani pazienti e i loro familiari, osservando quanto i figli in alcuni casi fossero una “sorta di deposito” di traumi, segreti, lutti congelati, fallimenti irrisolti delle generazioni che li avevano preceduti.

Ho cominciato ad interrogare con empatia e umanità questi genitori, non solo sul rapporto con i figli sofferenti, ma su come avessero memoria del loro essere stati figli a loro volta sofferenti, di generazioni su cui transitava un mandato spesso implicito o inconscio: laddove insieme si riusciva a svelarlo e ricostruirlo (almeno in parte) rendendolo consapevole e a rinarrarlo, questo alleggeriva di molto “il fardello” depositato sull’ultimo anello della catena rappresentato dal paziente. Erano i primi anni in cui la psicoanalisi soprattutto francese e argentina (da Racamier, Feimberg, Kaes e Eiguer, Puget ecc.) cominciava a occuparsi della famiglia, non tanto come un ostacolo alla cura, ma come una potenziale risorsa. In Italia, libri del calibro di Quale psicoanalisi per la famiglia di Nicolò e Trapanese e la Rivista Interazioni erano guide preziose.[1]

Veniamo allora alla mia esperienza comunitaria come spunto di partenza per una più ampia riflessione di oggi: vi parlerò di una fase di empasse e di crisi che ci ha fatto cogliere questo paradigma fondamentale non solo nelle famiglie dei pazienti, ma nello stesso gruppo curante. Si era nell’epoca della pre-aziendalizzazione in cui le équipes dopo la rottura delle barriere manicomiali si ponevano una sorta di compito fondativo, mitico, con forti componenti e aspettative idealizzate e personalistiche, sostenute anche da una politica sanitaria regionale che stimolava molto un attivismo innovativo, attraverso il finanziamento di Iniziative sperimentali a termine su progetto. Ritengo però che sia anche un rischio di alcune attuali strutture comunitarie (a piccolo gruppo) private e convenzionate, che tendono a riprodurre le caratteristiche passionali e inestricabili delle “famiglie malate” da cui provengono i nostri pazienti.

LE PROBLEMATICHE EMERSE ALL’INTERNO DEL GRUPPO DI OPERATORI

Si trattava di una comunità pubblica per 12 pazienti, collegata con il centro di salute mentale. L’ aspetto di cui ho scelto di parlare ha a che fare con la sofferenza che si è manifestata a un certo punto all’interno del gruppo di operatori (ha coinvolto me ma soprattutto i tre operatori di comunità) e si è protratta con una cronicità preoccupante, tale da comportare la messa in campo di vari dispositivi operativi e di risanamento del gruppo stesso.

Problematica 1

Cercherò di mettere in forma un breve abbozzo di “romanzo veritiero” – come lo intende Bion, cioè un po’ storico e un po’ psicoanalitico –   cercando di evidenziare oltre che i caratteri di unicità, come le storie di tutti i gruppi istituzionali che convivono gomito a gomito per molti anni nello stesso habitat, alcuni aspetti generalizzabili e in cui possiate almeno in parte riconoscervi.

Mi riferirò in particolare a quelle situazioni, in cui un nucleo fondatore originario permane nel tempo e sente il mandato e la responsabilità di tenere la rotta in relazione al compito primario (in questo caso quello di curare pazienti gravi) ma è anche, in qualche misura “agito” da un contratto implicito– “denegato” direbbero gli autori francesi come Kaes che hanno molto studiato questi fenomeni – che in prossimità dei momenti di cambiamento svela una componente narcisistica distruttiva che può bloccare lo sviluppo del gruppo e  delle singole persone e, in alcuni casi, portare alla fine dell’istituzione stessa. 

Problematica 2

Un’altra premessa importante riguarda l’ipotesi di lettura dei segnali di cronicizzazione del gruppo, che si sono resi comprensibili alla luce di un concetto elaborato nel ‘95 da Correale, molto vicino (forse precursore) a quello di area traumatica: il concetto di ipertrofia della memoria, sia nella sua dimensione episodica, che nella sua dimensione procedurale. Questo concetto-guida è rintracciabile in un contributo che compare in un libro, molto utile per chi lavora nelle istituzioni per la salute mentale. Si tratta di una raccolta di saggi di vari autori tra cui Kaes, Kernberg: Sofferenza e psicopatologia dei legami istituzionali” (1996).

Nel saggio di Correale vengono descritte le forme di irrigidimento della sofferenza che compaiono spesso nei gruppi di persone che stanno insieme da molto tempo, a partire da esperienze per lo più traumatiche e da segnali che sottendono uno stato cronico di cristallizzazione della sofferenza. Si presentano con una serie di varianti: sono ricordi da un lato iperchiari, molto intensamente investiti sul piano emozionale, quasi da sembrare qualcosa di vivo. In realtà dietro questa vivacità si nasconde una sorta di immobilità, dal punto di vista della possibile elaborazione.

È come se fossero usati come un assunto per motivare che le cose non possono che andare così senza possibilità di cambiamento, e quindi paralizzano l’evoluzione del gruppo mettendolo spesso in una condizione di girare a vuoto su di sé, perdendo a poco a poco quella che è la finalità del compito di cura. Di solito il rischio è, per esempio, di produrre una sorta di patologia dell’autoriflessione del gruppo su se stesso, che dimentica il fatto che è lì per i pazienti, mentre i pazienti sembra che viaggino per conto loro e spesso se la cavino meglio degli operatori.

L’altro aspetto ipertrofico che si può determinare ha a che fare con i rituali, con dei ruoli che diventano fissi, soprattutto in certi operatori che assumono delle funzioni statiche, che ossessivizzano i rituali delle riunioni che diventano come una sorta di rassicurazioni per non affrontare veramente i problemi, ripetendo comunque sempre gli stessi stereotipi e gli stessi slogan.

Il terzo elemento che lui notava come aspetto in grado di produrre la paralisi dell’evoluzione dei gruppi è quello delle atmosfere emotive e della difficoltà a produrre pensieri nuovi, per esempio un’esplorazione dei momenti di empasse; si manifestano con un effetto di cappa opprimente, di fardello emotivo, pesante e inamovibile, che tende a mantenere il gruppo come ipnoticamente irretito all’autoreferenzialità del suo passato.

Si tratta sovente di resti di esperienze affettivo-fantasmatiche che non vengono abbastanza commentate, dialogate e si sedimentano così, scisse e non elaborate. Perché è nel passato che generalmente è successo questo o questi eventi relazionali, pietrificati dal ricordo, che contengono in sé qualcosa di traumatico, spesso negato; ma che cosa impedisce questa abreazione? Correale propone come ipotesi il fatto che questo ricordo ipertrofico susciti “la paura emorragica del gruppo e che, se venisse pubblicizzato e fatto circolare, produrrebbe un effetto devastante di vergogna e di umiliazione”. Molto spesso, infatti, questi eventi hanno una connotazione di violenza, si pensi ai suicidi o omicidi o infanticidi di alcuni pazienti, alle malattie, ai gravi incidenti o ai lutti che colpiscono colleghi con cui abbiamo lavorato per anni e anni. In altri casi, meno gravi, questi eventi provengono da “ferite pregresse, frustrazioni o limitazioni del Sé” di alcuni singoli componenti, “che diventano patrimonio negativo di tutto il gruppo”. Questi fattori penso abbiano caratterizzato il caso che vi presenterò, e furono presenti sin dal duplice mandato – esplicito e implicito – legato alla sua fondazione.

STRUTTURAZIONE E CRISI DI UNA COMUNITÀ: MANDATI ESPLICITI ED IMPLICITI

Vediamo un po’ com’era nata questa piccola comunità nell’87, momento in cui la Regione Lombardia consentiva delle iniziative sperimentali, flessibili e con una finalità di ricerca. Da un punto di vista istituzionale, il piano formale ed esplicito, il progetto era una riformulazione, in senso riduttivo, di quello di un Centro crisi che l’équipe storica – guidata prima da una figura carismatica come Saraceno e poi da uno psicoanalista, Ferradini, molto capace e attento – aveva ideato per assolvere all’interno del servizio territoriale a una funzione che di fatto spettava all’SPDC, con cui c’era però un costante conflitto per divergenze personali e metodologiche (impostazione organicista, figure rigide).

Il progetto del Centro crisi, che la regione aveva bocciato, comprendeva anche una residenza notturna, per 3 pazienti e 1 operatore per cui erano già state predisposti gli spazi di un appartamento al piano di sotto, perfettamente arredati; nel medesimo spazio la Regione approvò invece un Centro diurno (sulle 12 ore) per un maggior numero di pazienti, tre operatori e un coordinatore, tutti consulenti a tempo parziale, denominandolo però comunità protetta.

Cominciamo col dire che questa non approvazione del progetto del Centro crisi costituì una frustrazione potente per il nucleo storico e che questo scacco non fu mai sufficientemente tematizzato e quindi realmente elaborato all’interno dell’équipe, che accettò “torto collo” la decisione regionale, il riadattamento riduttivo del centro, nonché la mia nomina, da consulente psicoterapeuta a coordinatore della nuova struttura, con un rapido (e forse indigesto per i colleghi) salto di ruolo. Quindi, mentre una parte – la più ferita dalla mancata approvazione- disinvestì e non si occupò della faccenda o attaccò inviando pazienti impossibili a mo’ di pattumiera o non inviandone affatto, la parte più creativa e in particolare il leader Gianfranco Ferradini, colse questa come un’opportunità molto utile e feconda: di questo momento fondativo rimase il ricordo della festa di inaugurazione della piccola CT a cui, in modo significativo, solo una parte dell’equipe fu presente.

Il mandato esplicito fu quindi quello di mettere a punto una sorta di laboratorio di studio e di approccio alle psicosi giovanili che per la loro turbolenza, di fatto, non riuscivano ad essere gestite solo con interventi ambulatoriali; si pensò quindi di costituire un ambiente terapeutico comunitario, in cui fosse possibile realizzare quella funzione integratrice, indispensabile per l’evoluzione della malattia. Contemporaneamente, questi erano gli anni in cui il leader stava progettando il distacco per il suo pensionamento e l’équipe viveva questo evento con una grande ansietà che si manifestava con una conflittualità interna, molto fastidiosa e pervasiva.

Queste due concomitanze favorirono unmandato implicito che giocò in modo potente il ruolo di suscitare nel piccolo gruppo un grande entusiasmo operativo e conoscitivo: le caratteristiche di questa struttura, organicamente ancorata al centro dell’équipe tramite il responsabile psichiatra, ma decentrata rispetto al gruppo allargato ancora molto conflittuale, consentì l’approfondimento di una specifica metodologia di intervento e di ricerca e una funzione integrativa di ritorno dell’esperienza al centro, nella riunione del giovedì del Centro di salute mentale: qui venivano comunicate le nuove acquisizioni cliniche, ma anche un clima intensamente affettivizzato, amicale e al contempo ludico, trasmesso dagli operatori impegnati con me nella nuova avventura comunitaria.

Nella fase iniziale, la memoria della festa di inaugurazione, che investiva soprattutto una giovane coppia di operatori – compagni anche nella vita privata- e in seguito un’infermiera, elemento filiale della coppia – a contatto nella vita quotidiana con i pazienti, divenne una sorta di mito delle origini propulsivo per molti anni. Nacque un modello di lavoro comunitario articolato con l’aggiunta di nuove figure professionali, una psicoterapeuta per la psicoterapia individuale, una di gruppo, una per gli interventi con i familiari, altri educatori per le attività “transizionali”, che cominciò a dare risultati confortanti. E poi le visite di confronto alla Velotte di Racamier, al Cassel di Hinshelwood o a situazioni italiane in via di sperimentazione; da qui, la produzione di scritti, interventi ai Convegni, la preparazione del Congresso Internazionale sulla Comunità Terapeutica tra Mito e Realtà (1996)  il volume pubblicato da Cortina con Anna Ferruta, Giovanni Foresti, Enrico Pedriali (1998), ma anche momenti conviviali che resero il gruppo profondamente compatto ed efficace con i pazienti, che sempre più, a loro volta, venivano inseriti e positivamente investiti come gruppo fondatore.

Dopo sei anni, una seconda festa, quella di pensionamento del leader, riconfermò l’investitura dei fondatori con un completamento della progettualità del modello terapeutico che prevedeva: un organico stabile con l’assunzione a tempo pieno del nucleo fondatore, l’aumento del personale con operatori di una cooperativa convenzionata e un nuovo progetto di ristrutturazione architettonica (coerente con il modello clinico) per l’allargamento della CT a piena residenzialità 24 ore su 24.

A ben vedere soprattutto questo ultimo punto, andava a riproporre e a realizzare l’antico sogno dell’équipe storica, di una struttura di cura per una presa in carico globale dei pazienti e più autonoma rispetto all’SPDC. Ma di ciò, ci fu nel gruppo scarsa consapevolezza. Ora, finché il leader psicoanalista Ferradini sostenne l’iniziativa sperimentale, le cose andarono decisamente bene. Al momento della sua dipartita ci fu quest’altra festa d’addio, l’altro ricordo ipertrofico in cui si ribadiva il mandato agli operatori, in particolare a questa giovane coppia di educatori, di potersi ingrandire e di raggiungere l’obiettivo della comunità residenziale, ma anche la funzione di promuovere addirittura l’integrazione di tutto il grande gruppo (patto implicito); questa separazione dal leader, non a sufficienza riconosciuta, costituì in realtà una grossa perdita per la piccola comunità che si trovò ad affrontare un importante momento di cambiamento, sommato al carico di questa eredità che, col senno di poi, si rivelò troppo gravosa senza una adeguata funzione protettiva.

Traducendo il concetto nei termini del “romanzo familiare”, era come se fosse stato messo in campo un padre che, andandosene, chiedesse al figlio prediletto (effetto Pigmalione) di crescere, diventare adulto, quindi emanciparsi, ma anche di badare alla crescita di tutto il resto della famiglia, proprio in virtù di questo rapporto speciale. Senza contare che il riconoscimento ufficiale della Comunità come struttura stabile del Dipartimento faceva perdere agli occhi dell’équipe che l’aveva generata quella funzione transizionale così utile al mantenimento dell’illusione desiderante e al contempo della sicurezza di una sua impossibile realizzazione.

Si profilò a questo punto una situazione paradossale: proprio quando si ottenne, anche a livello burocratico, buona parte di quanto era stato richiesto, cominciò per la comunità una situazione di crisi e di stallo, dominato e coperto dal ricordo rigido e ipostatizzato delle origini caratterizzate dalla immagine di “oasi felice” con legami indifferenziati e molto intimi.

Comparvero anche meccanismi molto preoccupanti e ben presto i primi segnali di cronicizzazione: oltre questi due ricordi che rimanevano come un a-priori che dava agli operatori il diritto a mantenere questo compito idealizzato, iniziò una situazione di isolamento. In modo oppositivo, gli operatori iniziarono a disertare la riunione del giovedì in cui di solito veniva comunicata l’esperienza, troncando quei nessi che erano stati una fonte costante non solo di apporto della comunità sperimentale al grande gruppo, ma anche di confronto e di dialettica viva. Il tutto, giustificato da una enfasi sulle differenze metodologiche e da un elitarismo aristocratico. E così si aprì pian piano un divario sempre più profondo tra la comunità e le altre strutture territoriali.

In secondo luogo, si presentò una tendenza espulsiva nei confronti dei nuovi operatori della cooperativa assunti in vista della trasformazione residenziale, che dopo pochi mesi se ne andavano, perché si sentivano degli intrusi e senza la possibilità di apprendere una metodologia, presentata come esclusivo appannaggio del gruppo fondatore. Anche nei confronti delle figure di riferimento, si scatenò una conflittualità accesa, soprattutto con la psicoterapeuta di gruppo portatrice di una modalità di lavoro gruppale, che mise sempre più in evidenza un modo intimistico e possessivo di gestire i pazienti.

Ma un segnale cronico molto grave fu il concepire la comunità come una propria abitazione, tanto che si arrivava all’imbarazzo nell’aprire la porta d’ingresso anche da parte di noi operatori consulenti, le due psicoterapeute o lo psichiatra o io come coordinatore e di sentire come una pellicola che veniva infranta solo per il fatto di bussare, suonare, suonare ripetutamente e trovare lì questi operatori che con i loro pazienti erano in una situazione, come dire, di oasi felice… finchè poi ovviamente quest’oasi a un certo punto non cominciò a frammentarsi.

Un altro elemento infine sul versante soggettivo fu l’elisione da parte degli operatori della propria vita privata, con un eccesso di oblatività, per cui l’aspetto dell’individualismo, soprattutto di uno di questi operatori, quello più geniale, divenne così esasperato che il suo modo di vivere la propria vita privata coincideva totalmente con quella dell’essere sempre a contatto con i pazienti in un’intimità assoluta, con una reperibilità notte e giorno, provocando una serie di effetti a catena, dalla crisi della sua relazione di coppia ecc.Insomma, si riprodusse un clima iperdenso, ingranato e intossicante molto simile a quello delle famiglie psicotiche da cui provenivano i nostri pazienti.

Quindi direi che si creò una situazione di psicotizzazione, però sul versante dell’ipercoinvolgimento anziché dell’allontanamento o della distanza emotiva: questo mi pare l’altro grande rischio, soprattutto delle piccole comunità, che spesso supervisiono anche oggi. Gli atteggiamenti di entusiasmo e di oblatività quando non rispettano dei setting e non accettano una funzione di regolazione possono diventare estremamente pericolosi. Naturalmente, infatti, cominciarono a succedere alcuni incidenti: l’infermiera ebbe un grave incidente automobilistico anche per via dello stress, somatizzazioni di un’operatrice ecc.

Mi si pose allora una questione cruciale: come intervenire in tutto ciò, tenuto conto che, quale leader, ero troppo immersa nell’esperienza, con la leadership del Centro di salute mentale molto ambivalente e il gruppo dei pazienti, fortunatamente giunti a un buon punto del percorso, in balia di questo stato? Con la psicoterapeuta di gruppo Enza Laurora elaborammo gradualmente una serie di scelte e dispositivi che potessero stimolare un cambiamento della situazione dall’interno. Utilizzai un’altra indicazione che avevo tratto sempre dal lavoro di Correale: quando ci sono situazioni di gruppo in cui il pensiero si blocca e la memoria rimane sempre fissa al passato, un antidoto fondamentale è l’iniezione del senso di realtà.

Laddove non è possibile la rielaborazione, si rende necessaria una sempre nuova sperimentazione di esperienze di gruppo, in climi continuamente soggetti ad evoluzione e sviluppo, che costringano le persone a confrontare i propri mondi isolati con mondi esterni nuovi e a mescolare continuamente i propri ricordi irrigiditi con la realtà attuale. In questo caso fu molto importante che questo senso di realtà, anziché essere un richiamo burocratico e repressivo, si potesse tradurre in un’offerta a questi operatori di tutta una serie di proposte e di nuovi progetti che potessero in qualche modo distoglierli dall’incantesimo.

Il primo dispositivo fondamentale fu il potenziamento dell’assemblea di comunità e della psicoterapia di gruppo che creò anche nei pazienti, abituati nella comunità ad un eccesso di dipendenza dalla figura centrale (anche la psicoterapia individuale era vissuta in un modo che enfatizzava sempre questa dimensione), una dimensione gruppale, un allargamento e una grossa ossigenazione anche nella relazione tra di loro; cominciarono proprio i pazienti a suggerire, attraverso un modo nuovo di viversi come gruppo con una figura di riferimento, una possibilità di uscire da questa impasse di legami duali estremamente possessivi e ristretti. Questo passaggio fu decisivo perché creò in molti di loro le condizioni per potersi separare, avviando gradualmente le dimissioni.

La seconda scelta importante fu quella di prendere come leader qualcuno con una maggiore distanza, scegliendo un supervisore esterno che potesse in qualche modo funzionare da nuovo elemento polarizzante ed equilibrante.

La terza scelta fu di mettere questo gruppo di operatori a confronto con altri gruppi che erano presenti all’interno del Dipartimento; in particolare si individuò una struttura che potesse essere facilmente integrabile con quella della comunità, per poter trasformare quella pellicola fusionale così soffocante e ormai asfittica in un confine elastico e permeabile.

Infine, decantata la crisi, pacificato il percorso fatto e confermato il riconoscimento dell‘importante opera degli operatori fondatori per più di 15 anni, fu proposta loro la possibilità di mantenere una continuità di lavoro (erano a tempo indeterminato) variando l’ambito e i compiti in strutture del Dipartimento meno stressanti.

Oggi aggiungerei di più: il potenziamento del confronto continuo con altre comunità simili, ma anche diverse, un’attività di valutazione alla pari come quello che Mito&Realtà ha introdotto con l’esperienza del Visiting e infine con una seria attività di ricerca, possibilmente collegata con le Istituzioni universitarie.

Ora, due considerazioni conclusive a commento di questa storia: la prima riguarda il problema, pocanzi accennato, dell’eredità nel momento fondativo di una nuova istituzione. Kaes (1988) sottolinea, nella sua visione freudiana di una trasmissione narcisistica tra le generazioni dei desideri irrisolti dei padri, come ogni “fondazione istituzionale contenga, nascosti, la continuità di un mandato e la sua rottura, l’assassinio e la filiazione (…) e invariabilmente la fondazione pone il fondatore nella condizione di disfare un’istituzione per fondarne un’altra” (p.44-45). E’ fondamentale che un gruppo fondatore si interroghi su quali desideri irrisolti possa proiettare sulle giovani generazioni.

Io penso che la mancanza di consapevolezza di questo processo provochi spesso nei fondatori quella tendenza a indurre una scotomizzazione degli eventi originari; per questo i ricordi ipertrofici erano così luminosi e legati a una dimensione euforica – le feste – scissi dall’idea del lutto, della separazione, della perdita- e ricomparvero con insistenza nel momento più critico del cambiamento della comunità, vissuto come la sua possibile distruzione. Così come sono altrettanto convinta che in presenza di una consapevolezza di questi nodi critici, probabilmente le nascite di nuove strutture e di nuove organizzazioni partirebbero con limiti più definiti, obiettivi meno grandiosi, ma minor fardelli e sofferenze narcisistiche da ereditare da parte chi con ingenuità ed entusiasmo – pensiamo ai giovani operatori – se ne fa carico nel tempo e che, nel momento della propria emancipazione, vi si oppone riconoscendo questa eredità come estranea.

Una seconda conclusione riguarda il passaggio della Comunità, dallo stato sperimentale, nascente, a quella della sua istituzionalizzazione: l’assunzione a tempo pieno degli operatori, lo scontro con la durezza dei turni, della quotidianità ripetitiva, della stabilità e definizione del proprio ruolo a contatto con i pazienti che vivevano a loro volta questo momento depressivo fu determinante per la messa in crisi di quella che era stata una modalità euforica – adolescenziale prevalente fino a quel momento e spesso frequente nelle situazioni comunitarie.

E qui io direi che c’è un altro elemento molto importante su cui riflettere, pensando al problema suscitato prima, dei criteri con cui selezionare e formare gli operatori che hanno a che fare con i pazienti psicotici o oggi ancor più con disturbi gravi di personalità: oltre al fatto che abbiano vissuto qualche parziale esperienza depersonalizzativa, è di grande aiuto il fatto che, nonostante la giovane età, abbiano potuto elaborare qualche esperienza reale di separazione o di lutto. Che abbiano cioè vissuto quello che li può rendere capaci, per esempio, di vivere accanto ai pazienti nella fase subacuta, quella della depressione mortale, della ripetizione e della noia. Questa modalità depressiva matura comporta un forte livello di individuazione e di differenziazione dall’unità Sé-gruppo e una capacità che presuppone l’aver affrontato, almeno parzialmente, soggettivi nodi separativi.

Molto spesso i giovani operatori (ma non solo loro) entrano nel lavoro di cura con il paziente grave con un grande fardello di problemi in questo senso: rotture con la famiglia negate, rivendicazioni narcisistiche in atto o simbiosi mascherate che si riattivano nel contesto istituzionale come naturale scenario di una riviviscenza del loro romanzo familiare.

Sta a noi formatori mettere in campo una particolare sensibilità e attenzione per tutelare i luoghi di cura dal rischio di questa malattia dell’ipercoinvolgimento definendo un po’ meglio i criteri di selezione degli operatori a quotidiano contatto con il paziente, proteggendo i giovani da condizioni di eccesso di responsabilizzazione, creando le condizioni per una loro graduale maturazione a un compito così gravoso. Dato che il tempo stringe, accenno solo a quella parte del titolo relativo al cambiamento della realtà dei nuovi contesti generazionali, politico-sociali… lasciando spazio alla discussione assembleare.

Attualmente mi pare che il rischio più grave possa essere rappresentato dagli effetti soggettivi e strutturali provocati dall’impoverimento delle risorse economiche, di personale, di ampliamento delle strutture e di potenziamento delle rette. Ben sappiamo da Kernberg come la paranoia genesis si produca nei gruppi proprio come effetto dell’impoverimento delle risorse. Questo è un discorso molto importante, che ha una valenza politica e una valenza psicologica. Rispetto alla valenza politica: ridurre sistematicamente le risorse degli apparati sanitari non soltanto fa lavorare di più le persone, ma determina una sensazione di impoverimento delle possibilità anche interiori di lavoro. Si tratta di una realtà che andrebbe evidenziata con molta forza, perché lavorare in grande difficoltà comporta una specie di caduta di motivazione, che poi si trasforma anche in persecutorietà.

Questa è uno stato ben conosciuto da tutti gli studiosi dei gruppi, citando Correale:quando un gruppo ha paura di stare male o di morire o di impoverirsi o di stancarsi o di non essere all’altezza della situazione, in genere il meccanismo che usa per fronteggiare questa depressività è la paranoia: è colpa di qualcuno. È colpa di qualcuno fuori, è colpa di qualcuno dentro, è colpa di una parte del gruppo che fa il sabotaggio. Allora tutte le volte che noi vediamo un gruppo fortemente paranoicizzato dobbiamo pensare che è un gruppo che ha degli elementi di luttuosità e di depressione interiore e che è un gruppo che si sente minacciato nelle risorse di cui pensa di non poter disporre nel fare il suo lavoro. Al di là del discorso politico penso ce ne sia uno umano, cioè non si parla di risorse soltanto in termini di personale o di strutture o di soldi che naturalmente sono fondamentali, ma anche di risorse umane, cioè ci chiediamo: circola nel gruppo sufficiente sincerità, competenza, fantasia, immaginazione, aspetti che permettono a quel gruppo di avere a disposizione tutto quello che è necessario per mettere a frutto un’analisi della situazione del paziente? Cioè, c’è un linguaggio sufficientemente emozionale, sufficientemente ricco sul piano immaginativo, oppure la paura è tale che si ricorre a linguaggi stereotipati, a meccanismi sempre uguali, a formule psichiatriche rigide e stanche e noiose e il dibattito sui casi spesso e volentieri diventa un’occasione di scontro, di litigio, di attacco, ma non di vero approfondimento?

Fondamentale per rispondere a questi interrogativi è la presenza di una leadership impegnata a incrementare continuamente al suo interno discorsi che creino un connubio tra aspetti strutturali e organizzativi e dimensioni anche di tipo personale, umano, fantastico, affettivo e di competenza naturalmente, una formazione orientata alla crescita delle persone sia nella competenza dell’oggetto di cui si occupano, ma anche del potenziale emozionale e immaginativo. Mi pare che tutta la giornata di oggi, così come l’avete pensata nella varietà dei temi, sia proprio un modello di formazione ricco e complesso che risponde a tutti questi livelli che ho potuto solo accennare; penso che ciò possa dare speranza che la trasmissione della cultura, dell’organizzazione e dei sogni tra le generazioni al vostro interno possa essere reale e al contempo generativa di promettenti evoluzioni.

NOTE

[1] Da loro mutuiamo la differenza tra i due concetti “transgenerazioanalità“ e “intergenerazionalità “ che potranno esserci utili anche parlando dei gruppi istituzionali e comunitari. Le ricerche attuali hanno ripreso e sviluppato la duplice accezione freudiana della trasmissione psichica: la dimensione positiva viene definita intergenerazionale e “veicola vissuti psichici elaborati o elaborabili, pensieri o rappresentazioni identitarie, costruzioni e ricostruzioni delle storie familiari (…) essa presuppone alterità e differenziazione negli scambi intersoggettivi tra i membri della famiglia.” (Nicolò 2000). Si tratta quindi di un patrimonio di risorse del passato familiare, che una volta riconquistate anche con una dolorosa elaborazione potranno essere integrate e personalizzate attraverso i processi di identificazione, producendo un arricchimento e una possibilità di espansione generativa. L’altra accezione invece, definita transgenerazionalità traumatica è intesa come passaggio, “trasporto” di strutture danneggiate e di contenuti psichici impregnati di concretezza e sensorialità, frutto di un deficit di simbolizzazione da parte di un genitore, espulso e forzatamente immesso nel ricettacolo più idoneo, cioè più vulnerabile. (Racamier 1993) Si tratta di eventi impensabili, indicibili, “oggetti bruti”, che producono identificazioni alienanti, ma anche lutti congelati, fatti riprovevoli e violenti rimasti segreti. Questa trasmissione del “negativo” (Green 1982), come qualcosa di indigeribile, che si impone come un corpo estraneo è votata alla “coazione a ripetere”, tema già presente nelle tragedie di Eschilo e necessita di almeno tre generazioni perché avvengano gravi disturbi psicologici e in particolare la nascita della psicosi o della patologia borderline.

Con Eiguer ho potuto mettere a punto un’intervista transgenerazionale che si è diffusa in molti servizi soprattutto nel Nord Italia per creare una profonda alleanza con le figure genitoriali.

BIBLIOGRAFIA

Correale, A. (2006) Area traumatica e campo istituzionale. Borla, Roma.

Eiguer, A. (1983) Un divano per la famiglia: dal gruppo alla terapia familiare psicoanalitica. Borla, Roma 1986.

Eiguer, A. (1987) La parentela fantasmatica. Borla, Roma 1990.

Kaës, R., Fainberg, H., Enríquez, M., Baranes, J. J. (1993), Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Borla, Roma 1995.

Kaes, R., Pinel,J.P  Kernberg, O., Correale, A.,  Diet E.,  Duet. B. (1996) Sofferenza e psicopatologi dei legami istituzionali, Roma, Borla, 1998.

Laurora E.  (2005) Gruppalità e istituzione curante in Vigorelli M. (a cura di) Il lavoro della cura nelle Istituzioni, Milano Franco Angeli.

Nicolò A.M., Trapanese G. (a cura di) (2005) Quale psicoanalisi per la famiglia? Franco Angeli, Milano.

Vigorelli M. Stuflesser M. Gazale F. (1993) Dilemma e processo di cambiamento nell’interazione tra strutture istituzionali in Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale Roma, Il Pensiero Scientifico.

Vigorelli M., Ambiente comunitario e patologia grave Prospettive Psicoanalitiche nel lavoro istituzionale, 14, 3, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1996.


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