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BAMBINI DIGITALMENTE MODIFICATI | Competenza somatica per la nuova clinica

PSICOLOGIA PSICOSOMATICA – 42 – PUBBLICATO IL 9 FEBBRAIO 2022 (ARTICOLO IN PDF)

Di Simone Matteo Russo

I bambini non sono più quelli di una volta, così come non lo è il mondo. Stra – ordinarie rivoluzioni, in primis quella tecnologica, stanno mutando le relazioni tra le persone, incluso il rapporto genitori-figli, così come i corpi, rendendoli “Digitalmente Modificati”, ossia più reattivi, spesso impermeabili alle consuete pratiche educative. Come incontrare e sostenere la crescita dei bambini dell’oggi? Come comprenderli nella loro peculiarità di nativi digitali con caratteristiche così distanti dalle generazioni precedenti? I collegamenti tra emozioni e parole che ci dicono chi siamo e cosa proviamo, passano inevitabilmente dal corpo e dalle sensazioni che lo abitano. Nello scenario attuale, con bambini spesso agiti da una corporeità dis -regolata che tollerano sempre meno le frustrazioni, la competenza somatica può essere lo strumento per salvaguardare la costruzione di un’identità che tenga conto del loro sentire, aprendo a nuove possibilità affettive e relazionali.

UN MONDO “VIRTUREALE”

Ai nostri giorni, la velocità del cambiamento in atto di tipo sociale, economico, tecnologico cui siamo tutti sottoposti è sempre più rapida e frastornante. In questo tempo senza tempo, riscontriamo la difficoltà nel determinare confini ed entità attraverso le quali orientarci e definirci.

Viviamo, infatti, in un mondo che ho provato a definire con un neologismo mondo “virtureale” in cui viene a perdersi una netta separazione tra ciò che è virtuale e ciò che appartiene alla realtà. In questa estrema permeabilità, le esperienze vissute nel cosiddetto mondo virtuale hanno spesso un enorme impatto sulla vita reale, modificando le coordinate dei processi di crescita dei bambini delle nuove generazioni. Per esempio, dovremmo chiederci come si sta costruendo l’identità di Luca, 9 anni, il quale dopo le lezioni, invece che scendere in cortile o andare a divertirsi con i compagni di classe al parco di fronte alla scuola, da tempo preferisce giocare nella sua cameretta ai videogiochi: ieri a Fifa, oggi a Fortnite e God of War. La mancanza di amicizie in “carne e ossa” e di rapporti con i pari potrebbe far pensare che Luca soffra della carenza della socializzazione e del gioco condiviso dal vivo. Nient’affatto! Luca, infatti, è poco “sociale” ma molto social. Di conseguenza, nell’on-line è molto ricercato dalla sua community, riuscendo a ottenere centinaia di “amicizie” e di “like” in quanto ottimo giocatore. In queste trasformazioni in atto, è fondamentale ripensare i paradigmi dello sviluppo anche dal punto di vista somatico: per esempio, dovremmo interrogarci su quali parametri si costituiscano i corpi dei bambini delle nuove generazioni, non solo in termini di rappresentazioni psichiche, ma come abilità corporee e configurazioni neurali.

Vorrei approfondire queste riflessioni a partire da una breve vignetta clinica che riprendo da Adolescenti Digitalmente Modificati, testo scritto a quattro mani con Riccardo Marco Scognamiglio. Il protagonista è Marco di 7 anni, iperattivo, che si presenta ancor prima di entrare in seduta col suo corpo fuori controllo, correndo rumorosamente per il corridoio che dà accesso al mio studio, nella completa indifferenza dei genitori. Marco non sa che farsene delle matite e dei fogli bianchi che, dalla segretaria, gli vengono messi a disposizione per disegnare. Nulla riesce davvero a coinvolgerlo, neppure il fumetto di Topolino recuperato nel portariviste: lo prende in mano, guarda la copertina, lo sfoglia velocemente osservando qua e là le figure, per abbandonarlo poco dopo sulla sedia. All’Istituto di Psicosomatica Integrata, riceviamo spesso bambini, anche molto piccoli e, nel corso degli anni, abbiamo osservato profondi cambiamenti già nel vivere il primo spazio d’accoglienza, la sala d’aspetto. Ad esempio, come nel caso di Marco, è sempre più difficile osservare giovanissimi pazienti, in grado di farsi compagnia da soli, trascorrendo il tempo che li separa dalla seduta stando con sé stessi e con i loro pensieri, utilizzando la fantasia.

Ma torniamo alla faticosa attesa di Marco. Dopo aver a lungo sopportato in silenzio, improvvisamente, la madre sbotta contro di lui, senza tuttavia produrre alcun effetto sul bambino che, dopo uno sguardo fisso negli occhi di qualche secondo, riprende prontamente la sua condotta frenetica. A questo punto, la madre, rassegnata, tira fuori dalla borsa «l’unico antidoto», così lo definisce, al problema: l’IPad, con all’interno i suoi videogiochi preferiti. Sono numerosi gli spunti interessanti di questa vignetta che, nella sua semplicità, esemplifica precisamente due delle principali caratteristiche della mutazione in atto del disagio dei bambini delle nuove generazioni. Il primo elemento è l’ingombro del corpo, cioè il proliferare di una sofferenza incarnata, sempre più corporea e meno mentalizzata. Nell’attuale contesto sociale, «stiamo assistendo a una metamorfosi dei corpi, nella quale la forza di volontà finisce per soccombere alle reattività corporee che, così, prendono il sopravvento» (Scognamiglio e Russo, 2018, pag. 18). Come in Marco, che nella sua iperattività, corre freneticamente per il corridoio senza controllo.

CORPI DISREGOLATI

La gran parte degli attuali disturbi in età evolutiva riguarda la corporeità disregolata:

Il secondo elemento riguarda l’impermeabilità alla parola di questi disturbi. Nel caso di Marco, è evidente come la madre che «sbotta contro di lui», non ottenga alcun risultato e, in generale, è sempre più frequente che l’intervento dialettico dell’adulto oggi non riesca a contenere e a regolare un corpo fuori controllo. Il contesto attuale è ben diverso da quello delle generazioni passate in cui lo sguardo del padre “fulminava” il corpo del bambino o il richiamo minaccioso della presenza simbolica paterna da parte della madre – «se non la smetti, stasera lo dico al papà» – riusciva ad avere “presa” tanto da modificarne i comportamenti.

Assistiamo a un cambio di scenario in cui il potere trasformativo della parola dell’adulto sembra aver perso d’efficacia:

Per questa nuova clinica a prevalenza corporea, la talking cure non sembra più sufficiente. Il ricorso sempre più frequente all’utilizzo dei farmaci per bypassare il lavoro psichico e puntare direttamente a modificare le soglie di attivazione del corpo, sembra esserne un’ulteriore conferma.

CHE COSA È CAMBIATO?

Cosa induce il mal-essere a trasformarsi in disturbo? Perché oggi il corpo tende a prendere il sopravvento sul sistema delle rappresentazioni psichiche? Dovendo forzatamente semplificare, mi limiterò a citare tre fattori del contesto sociale attuale che influiscono sul cambio di scenario. Una prima componente riguarda una condizione che abbiamo definito traumatismo generalizzato (Scognamiglio e Russo, 2018). Quando parliamo di trauma siamo portati a pensare agli shock dovuti a situazioni estreme: il grave incidente, l’abuso sessuale, il disturbo post-traumatico dei soldati reduci dalla guerra, ecc.… Ai giorni nostri, tuttavia, la dimensione traumatica è determinata dalla carenza di sistemi simbolici che non proteggono più dall’impatto con l’Altro. I tradizionali contenitori sociali sono “bucati”: Stato, Chiesa, Scuola, Famiglia hanno perso la loro funzione di contenimento e la capacità di tenere insieme i corpi.

La conseguente perdita delle alleanze collettive non riguarda solo l’aspetto ideologico della caduta dei valori, bensì le ripercussioni sui nostri corpi che non riescono più a stare uniti senza un collante sociale. Se sul versante psichico, la scomparsa del senso di comunità intensifica l’onnipotenza narcisistica e il senso di sfiducia nell’Altro che non protegge più, su quello corporeo si produce un’allerta di fondo costante. Ecco una possibile spiegazione della proliferazione di condizioni di ansia generalizzata anche nei giovanissimi. Questo contesto introduce un secondo fattore, conseguente al primo, che riguarda il cambiamento degli schemi relazionali nella direzione ansioso-evitante in cui l’Altro che non protegge più, viene percepito come minaccioso e, di conseguenza, è messo a distanza. Parlo volutamente di schemi relazionali e non di modelli d’attaccamento, concetto che rimanda alla dimensione dell’accudimento primario, poiché oggi l’importanza del caregiver, anche quando sufficientemente buono per dirla con Winnicott, è enormemente depotenziata dall’effettivo caregiver di oggi, cioè l’Altro sociale digitale. La mancata alleanza nella rete sociale delle agenzie educative, infatti, lascia spazio e potere alla Rete virtuale nella funzione di tampone del disagio e di accompagnamento alla crescita, evitando le fatiche e le inevitabili delusioni dello stare con l’Altro. La tecnologia, infatti, sostiene e stimola specifici pattern relazionali e corporei attraverso i quali è possibile fare esperienza senza un’implicazione personale. Così facendo, l’Altro è tagliato fuori.

Un terzo fattore riguarda proprio la digitalizzazione che alimenta la dimensione della corporeità dis-regolata. La digitalizzazione è un fenomeno di massa che intacca e precarizza tutti processi primari: pensiero simbolico, il rapporto col linguaggio, la gestione delle emozioni e delle relazioni, la competenza somatica. Gli effetti sono riscontrabili nella mutazione intervenuta negli Adolescenti Digitalmente Modificati (ADM) dell’ultima generazione, cioè a una progressiva economia delle funzioni psichiche (pensiero operatorio, azzeramento del conflitto, difese denegatorie, alessitimia) e, in generale, a un impoverimento dei processi rappresentativi coi quali ha sempre lavorato la psicoterapia classica.

LA TRASFORMAZIONE

Già agli albori degli anni ’90, i prodromi della fondazione dell’Istituto di Psicosomatica Integrata sono fortemente marcati dall’attenzione alle ripercussioni del fenomeno digitale sulla clinica. In quegli anni, la scuola è stata indubbiamente un luogo privilegiato per osservare le modificazioni dei pattern cognitivi e relazionali delle nuove generazioni. Ciò che abbiamo compreso è che una grande responsabilità nei cambiamenti a cui stiamo assistendo può essere attribuita al continuo e progressivo allenamento al codice digitale, cioè un processo comunicativo che ha come caratteristica principale di imporsi direttamente al sistema sensoriale, senza stimolare processi di natura metacognitiva: dai videogame alle serie Netflix, passando per le chat, per arrivare a tutto ciò che avviene in internet, il tempo per scegliere si accorcia, facilitando l’assorbimento nello streaming compulsivo. Nel passaggio da un dispositivo all’altro, c’è indubbiamente un gradiente d’intensità e, di conseguenza, un livello differente di sollecitazione. Tuttavia, ciò che accomuna tutti questi contesti digitali è che la persona si trova a dover gestire una sovrabbondanza di informazioni e stimolazioni che colpiscono innanzitutto la corporeità. È il corpo a essere assorbito prima di, o talvolta senza, attivare il ragionamento. Le attività stimolate, infatti, sono riflesse e non riflessive. Nel codice digitale siamo presi nel flusso, avviati e condotti da una fonte esterna che non promuove processi di ascolto interno e di autoregolazione corporea.

Differente è il codice che usiamo, per esempio, per leggere e scrivere che abbiamo definito codice analogico. Quest’ultimo è anch’esso un processo comunicativo che, tuttavia, necessita di essere interpretatoe mediato da processi di natura metacognitiva. Il piacere che si ricava nella scrittura e nella lettura dipende dal contributo psichico e di rappresentazioni attivate dal soggetto: il codice analogico, dunque, stimola lo sforzo cognitivo e l’immaginazione. Inoltre, un’ulteriore differenza rispetto al codice digitale è che il ritmo nell’esecuzione è autoregolato dal soggetto il quale può ottenere maggiore piacere attraverso l’ascolto interno dei pensieri e delle sensazioni corporee. Come si può dedurre da quanto esposto, i due codici stimolano aree corticali differenti:

Il punto non è stabilire quale sia il codice buono e quello cattivo, bensì il loro valore adattivo nel contesto attuale. Per esempio, cosa succede ai bambini di oggi che, a casa per moltissime ore al giorno, allenano il proprio cervello reattivamente e le proprie abilità sensomotorie nella direzione del digitale (dal latino, digitus «dito»), quando invece a scuola viene richiesto loro di leggere o di scrivere un tema? In seduta, Giulio di 9 anni dice che, quando deve leggere, non riesce a concentrarsi perché «c’è troppa tranquillità» e, quando deve scrivere, commette continuamente errori banali di ortografia, così come nell’esecuzione di semplici calcoli matematici. E se quella digitale fosse una condizione predisponente al dilagante fenomeno dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)? Ho provato a fare delle riflessioni al riguardo già alcuni anni fa: l’ipotesi contenuta in questo lavoro (Russo, 2012) è che le nuove generazioni stiano sviluppando precocemente fenomeni di discrepanza tra:

Per verificare questa tesi, l’équipe dell’Istituto di Psicosomatica Integrata ha condotto una ricerca nelle scuole elementari milanesi su circa 500 studenti dai 5 ai 7 anni nella quale abbiamo valutato l’efficacia di uno specifico training sensomotorio nel migliorare l’acquisizione dei prerequisiti di letto-scrittura nelle prime e seconde classi. In particolare, ai bambini abbiamo fatto eseguire: attività di coordinazione motoria fine; esercizi d’integrazione emisferica, neuromotoria e sensomotoria; prove d’abilità visuo-percettive, cross-pattern, con l’obiettivo di esercitare le competenze non stimolate dal codice digitale. I risultati hanno riportato un evidente miglioramento nell’acquisizione delle abilità di lettura e scrittura, con interessanti prospettive per un lavoro di prevenzione ai disturbi dell’apprendimento. Da un punto di vista neuro-funzionale, questa ricerca ci ricorda che il funzionamento del cervello è simile a quello di un muscolo, confermando l’ipotesi che l’esposizione continua al codice digitale possa produrre cambiamenti delle mappe neurali con conseguenti facilitazioni nella direzione in cui avviene l’allenamento. Nel corso dell’evoluzione della nostra specie, non abbiamo mai allenato così intensamente e così precocemente le abilità subcorticali di tipo reattivo a scapito di quelle corticali. I due sistemi, dunque, che in teoria dovrebbero costantemente interagire, in realtà, hanno obiettivi e gratificazioni di natura differente. Ma non solo!

Nel lungo periodo, ciò che si innesca è una relazione di dipendenza dal codice digitale, più stimolante ed eccitante, con relativi stati di malessere nel momento in cui viene meno il contatto. I processi di dipendenza scaturiscono da una complessa interazione chimica di sostanze del cervello, in primis la dopamina, il neurotrasmettitore essenziale nel cambiamento neuroplastico che promuove la nascita di un’abitudine. Nella prolungata interazione col codice digitale, la dopamina è rilasciata ogni qualvolta proviamo gratificazione sia di tipo fisico che psicologico, ma anche nell’attesa dell’attività piacevole da eseguire: è il cosiddetto “rinforzo dopaminergico” che promuove comportamenti di neuro-abituazione alla ricerca della ricompensa. Come sappiamo, l’accesso ai meccanismi di interazione digitale avviene sempre più precocemente, spesso in età in cui il cervello del bambino non ha ancora strutturato le sue funzioni a livello neuroplastico, in una fase in cui vige la massima neuroplasticità sia dell’hardware, cioè della struttura cerebrale ma anche del software, ossia dei pattern relazionali e del sistema d’interpretazione che il bambino utilizzerà per dare senso agli eventi.

Di conseguenza, innescare un processo di dipendenza dopaminergica in un tempo prematuro vuole dire modificare “a monte” le caratteristiche del contenitore psicosomatico, non “a valle”, cioè in una struttura definita e consolidata nei suoi parametri fondamentali. L’adulto che impatta con il codice digitale ha fatto in tempo a strutturare tutta una serie di funzioni e componenti protettivi che un bambino rischia di non sviluppare come, per esempio, la capacità di tollerare l’attesa e la frustrazione. Infatti, la ricompensa digitale di dopamina è immediata, cioè molto più rapida di qualunque processo mediato di regolazione relazionale.

UN DISAGIO DIGITALE

Un punto fondamentale, dunque, è che oggi un bambino può ritrovare stati di comfort al suo disagio senza passare attraverso la relazione. Quando sta male, infatti, il suo corpo ha una vasta scelta di istantanee possibilità per rifornirsi in modo digitale di dopamina e stare subito bene. Così facendo, il digitale sostituisce il seeking, cioè la richiesta d’aiuto all’Altro. Tale facilitazione, dunque, da un lato non allena allo sforzo relazionale, alla capacità d’ascolto, alla comprensione empatica, al riuscire a tollerare l’inevitabile quota d’insoddisfazione presente in qualunque rapporto; dall’altro, modifica i parametri strutturali del disagio che, così facendo, cambia di consistenza: non più un formato rappresentativo bensì digitale, on-off. Ecco una possibile spiegazione di come oggi il mal-essere e la sofferenza soggettiva si trasformino in disturbo corporeo. Un corpo, dunque, che con i suoi bisogni da soddisfare, finisce per prendere il sopravvento sulla volontà: non sei tu che vuoi o non vuoi, è l’Altro digitale che vuole per te e il tuo corpo ad averne bisogno. In termini neurofisiologici, accumuliamo arousal che non scarichiamo. L’abitudine alla continua produzione di dopamina, infatti, crea condizioni esplosive nel corpo che sfociano, per esempio, nei maltrattamenti sempre più frequenti nei confronti dei genitori quando viene tolta la “sostanza tecnologica”: insulti, urla, calci e pugni da parte di bambini posseduti dal loro corpo. Spesso i genitori confondono questi stati reattivi con l’aggressività, cioè presuppongono in questi comportamenti l’espressione di un’intenzione malevola. Ma è davvero così? C’è una volontà del bambino contro il genitore?

Nella quasi totalità dei casi, il bambino precipita improvvisamente in una crisi di astinenza e reagisce a chi in quel momento si interpone tra lui e la sostanza da cui dipende. È fondamentale comprendere che, in tali condizioni corporee, non è possibile dialogare. Ciò che sto descrivendo, deve reinterrogare la funzione genitoriale e, più in generale, dell’adulto di oggi che tende a leggere l’esperienza attraverso modelli relazionali anacronistici basati su regole e principi razionali che parlano alla neo-corteccia, non tenendo conto dei cambiamenti nei pattern di adattamento sottocorticali continuamente rinforzati dal contesto digitale. Il modello relazionale educativo punta ancora a richiamare buon senso, forza di volontà del tipo “volere è potere” e responsabilità, senza tuttavia verificare se siano maturate le capacità per sostenere l’appello a una soggettività agente: «Diciamo sempre le stesse cose»; «È ormai un anno che ripetiamo che deve prima fare i compiti, poi accendere la televisione»; «Lo dico ogni pomeriggio che, a una certa ora, deve spegnere il videogioco. Ma non capisce! ». Il “disco rotto“ genitoriale mette bene in evidenza il fallimento di un modello dell’imputabilità che pensa di poter promuovere l’assunzione della responsabilità attraverso la parola. La spiegazione, dunque, si rivela inefficace poiché le capacità di mentalizzazione e responsabilità a cui l’adulto si appella devono ancora costituirsi. 

Il problema della perdita del potere trasformativo della parola riguarda anche l’ambito terapeutico, soprattutto in coloro che si sono formati all’ascolto e al confronto sui contenuti del discorso. Ma di quale discorso stiamo parlando? Da ormai trent’anni, il nostro gruppo di lavoro si sta occupando di questi processi di trasformazione, in cui «alla funzione analogica della metafora, come manipolazione immaginaria del simbolico, si è sostituita una cultura digitale relativa al mito della mente modulare, ai modelli cibernetici, in cui l’operazione significante è giocata in relazione di uno a uno col reale, ossia dall’utilizzo dei significanti come cose». In questa psicotizzazione generalizzata, il discorso si realizza «in tempo reale mediante l’opportuna manipolazione di “lingue fondamentali”, cioè linguaggi-macchina». Lo sviluppo e il radicale potenziamento di questo fenomeno nei tre decenni ha reso necessario un progressivo adattamento del nostro modo di lavorare per entrare in contatto con un disagio a matrice digitale, sempre meno articolato nel sistema simbolico e sempre più incarnato nel reale del corpo.

IL MODELLO SOMATIC COMPETENCE ®

Ne è nato il modello terapeutico Somatic Competence® che si articola su tre versanti:

1) Il primo riguarda la regolazione affettiva, cioè la difficoltà a elaborare e mentalizzare gli aspetti emozionali, in pazienti che non riescono a implicarsi personalmente in ciò che soffrono.

In questi casi, il pericolo per lo psicoterapeuta è innescare un braccio di ferro dialettico che mette in crisi la costruzione dell’alleanza terapeutica alla ricerca di elementi per costruire una domanda di cura e avviare un discorso. Come psicologi spesso siamo portati a interpretare la regolazione affettiva come un problema appartenente al versante psichico. Nella nostra esperienza, tuttavia, riteniamo che oggi non sia possibile slegare il concetto di regolazione affettiva da come il bambino si sente nel corpo. Al contrario, consideriamo gli stati corporei alla base della regolazione affettiva.

2) Il secondo versante, dunque, riguarda gli stati del corpo. In questo ambito troviamo schemi d’organizzazione motoria di lotta-fuga o freezing (Panksepp e Biven, 2014), cioè stati di congelamento depressivo, blocchi, disfunzioni, iper-attivazioni incontrollate, conflitti di schemi motori reattivi, ecc… ci occupiamo degli stati corporei per favorire l’inclusione del corpo nel processo terapeutico, considerando questo livello d’intervento come un presupposto necessario a una condizione elaborativa.

Gli schemi d’hyper-arousal (per esempio, di lotta-fuga) o hypo-arousal (per esempio, di freezing) e, più in generale gli stati del corpo, sono forme di adattamento all’ambiente. Di conseguenza, non ci sono risposte somatiche giuste o sbagliate, ma solo adattive! Quando tali schemi, tuttavia, sono dis -regolati o in conflitto tra loro, possono causare problematiche evolutive: si arresta l’adattamento e, nel bambino, il suo processo di crescita e d’individuazione. Il conflitto tra stati del corpo può produrre un’incongruenza fra comportamento, schema d’organizzazione motorio attivo e livello di arousal. Per esempio, Giulio di 10 anni soffre di difficoltà nell’apprendimento e di disturbi del sonno: «Non riesco a calmarmi dentro. Solo quando combatto davanti al video mi tranquillizzo» dice, portandoci all’interno di un circolo vizioso senza fine. L’ipotesi, dunque, è che nel momento in cui Giulio si appresta a dormire o a studiare (livello del comportamento), continui a essere attivo dentro di lui uno stressor indotto dal pattern di lotta (schema motorio attivo) rinforzato e fissato dal training digitale quotidiano indotto da Fortnite, dalle serie-tv dei Power Ranger su Netflix, dai video dei suoi gamer preferiti su YouTube, con il conseguente mantenimento dell’hyperarousal. Come possiamo mettere insieme il sonno e le condizioni per studiare o ascoltare la lezione, con uno schema d’organizzazione motoria di lotta, regolando il livello di arousal?

3) Attraverso la competenza somatica che costituisce il terzo versante del modello. La competenza somatica è la capacità di sentire come stiamo nel corpo quando siamo in relazione con l’Altro. L’attenzione è rivolta alle sensazioni fisiche che si attivano nel qui e ora poiché solo attraverso una focalizzazione sugli stati del corpo in tempo presente, è possibile regolare l’arousal corporeo.

In ambito psicodinamico, c’è la tendenza a concepire le emozioni in termini di rappresentazioni psichiche. Tuttavia, le emozioni sono innanzitutto schemi d’organizzazione motoria, cioè precisi moti del corpo, il più delle volte non riconosciuti dalla coscienza e, di conseguenza, non regolabili.

In questa direzione, si è orientato il lavoro con Marco, Luca, Giulio e molti altri bambini digitalmente modificati: seduta dopo seduta, attraverso un accompagnamento progressivo nell’acquisizione della competenza somatica, i corpi vengono regolati e riabitati. Per esempio, Marco scopre che ciò che descrive ormai abitualmente come rabbia nei confronti della madre quando lei esce di casa e lo lascia da solo è, in realtà, ansia: è una pressione nel petto che toglie il respiro a farlo muovere in continuazione. Quando in seduta, insieme al terapeuta, riesce a visualizzare la scena e a mantenere l’ascolto sulle sensazioni fisiche, l’ansia lascia il posto prima alla tristezza, poi all’Altro: “Non so di cosa, ma mi piacerebbe riuscire a parlare con qualcuno. Come si fa?”. Da una clinica tradizionale che si concentra prevalentemente sulla parola come strumento di cambiamento, il modello di psicoterapia Somatic Competence lavora a partire da stati dis -regolazione e dai conflitti somatici per contattare e regolare un disagio sempre più corporeo a matrice digitale, incarnato soprattutto nelle nuove generazioni. L’obiettivo preliminare è far entrare in terapia gli stati del corpo che tendono a prendere il sopravvento, bloccando i processi di mentalizzazione e adattamento e, di conseguenza, le possibilità evolutive. Lo scopo finale resta arrivare a nominare ed elaborare la conflittualità psichica, quando presente, condizione che spesso nella nuova clinica non rappresenta il punto di partenza, bensì un obiettivo da raggiungere. In questo orizzonte, il concetto di competenza somatica e il modello Somatic Competence® che ne deriva, rappresentano un tentativo di rispondere all’attuale disagio della civiltà: le logiche del corpo, dunque, come un nuovo ambito di lettura del disagio e d’intervento terapeutico, ricco di prospettive, con pazienti, non solo bambini, che nel prossimo futuro apparterranno sempre più sovente a una clinica digitalmente modificata.


BIBLIOGRAFIA

(ARTICOLO IN PDF)


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