Prefazione al libro “Lo Spleen di Milano” di Viviana Faschi
di Riccardo Marco Scognamiglio
Psicologia Psicosomatica –28 – Pubblicato il 12 Settembre 2014
Milano, estate 2014, arrivano come una dedica inaspettata i poemetti in prosa di Viviana Faschi, poetessa-filosofa emergente. L’occhio innocente dell’artista e quello “clinico” sulla città e sulla società contemporanea si fondono e sprofondano nei temi della metropoli meno guardata d’Europa. Scognamiglio, da sempre attento ad accogliere le anticipazioni dell’arte sul disagio sociale, riflette sulle stratificazioni di un testo complesso, eppure agile alla lettura.
Amo Milano, nonostante tutto! Conosco il suo cuore tradito, antico, i mormorii dei suoi muri. Milano resiste agonizzando all’inevitabile perdita della sua anima. Per questo, quando sento le nebbie e gli odori di chi la racconta, questa mia città segreta, nascosta agli sguardi contemporanei, mi emoziono. Mi emozionano le poetiche dello sguardo! Viviana Faschi guarda l’orizzontalità per dettagli di Milano, la vertiginosa verticalità di Genova, la rassicurante astringenza di Varese. Guarda e ascolta chi o cosa della città, ancora parla.
Murs, murmures, muri che ancora mormorano, sussurri delle pietre, silenzi delle parole degli esseri parlanti. La scrittura scaturisce come esigenza archeologica di preservare questi bisbigli urbani dall’estinzione. Spleen di Milano è una piccola fantascienza da day-after del senso. È morto o morente il senso: la città si fa sempre più un corpo disabitato e quasi nessuno sembra essersi accorto. “Erano morti e non lo sapevano” sembra essere la morale sottesa di questa piccola antologia di poesia filosofica.
Alla nascita della città moderna, la città industriale, Toulouse-Lautrec e Baudelaire ruotavano sui lati opposti del medesimo tema. La città smangia la soggettività: “De la vaporisation et de la centralisation du Moi. Tout est là. D’une certaine jouissance sensuelle dans la société des extravagants” – scriveva Baudelaire nel 1887 in Mon coeur mis à nu. Gli stravaganti, già in quell’epoca vagavano senza più sapere dove andare. Preludevano agli zombie dei miti televisivi dell’oggi.
In quella perdita d’orizzonti, lo sguardo – e il suo correlato tecnologico, la dagherrotipia, cioè la prima forma di fotografia – è il luogo topologico che segna l’incontro fuggente o il disincontro con l’altro Io, altrettanto vaporizzato, sempre più improbabile.
Baudelaire tenta di costruire trame intorno all’indicibile dello sguardo; Toulouse-Lautrec fra altri, fissando sulla tela quello stesso sguardo perso nel vuoto urbano, nel silenzio desolato dell’ivresse. In entrambi i casi, quei personaggi estrapolati dall’anonima folla urbana che guardano, siamo poi noi, figli di quella modernità urbanizzata che nella città si perde e si ritrova infinite volte, sempre nella solitudine della folla.
L’ivresse, quell’ubriachezza esistenziale era il grande antidoto allo Spleen de Paris, all’ “orribile fardello del tempo”. Era lo strumento di Baudelaire per portare la parola al suo limite. Oggi, nell’ottundimento universale degli sguardi regolati dalle chat, dai blog, dai pop-up, dalla digitalizzazione della parola, non c’è ivresse che tenga il passo con la perdita della capacità di guardare, di sentire il peso dell’esistere per trasformarlo in pensiero tragico.
I Petits Poèmes en Prose erano in Baudelaire ciò che riempiva lo spazio preparatorio dello scatto dagherrotipico: descrivevano ciò che accadeva nella lentezza processuale dell’impronta sulla lastra fotografica primitiva. Soprattutto ciò che accadeva “dentro” la soggettività catturata nel meccanismo dello sguardo. Poi la foto fissava per sempre quell’attimo temporale irreversibile e quindi già superato rispetto all’istante dello sguardo. La parola invece ancora resisteva all’erosione del tempo. Il tempo per dire e il tempo per vedere si facevano in Baudelaire il terreno di un conflitto che preparerà la struttura stessa della mente dell’era attuale.
Tutto questo come doverosa premessa contestuale all’opera di Viviana Faschi.
Come, infatti, evitare un vertiginoso confronto se l’opera stessa si fa parodia e quindi citazione esplicita? La dagherrotipia di Baudelaire si fa qui scatto dell’I-phone, ma senza perdersi nella rete fra twitters, WhatsApp, Facebook… Anzi, l’autrice osa addirittura, piuttosto, sfidare oggi l’universale del web per affidare lo scatto alla carta, quando nemmeno più la fotografia si permette di farlo. Controtempo, in un mondo d’icone che definitivamente sostituiscono il “dire”, quell’inattuale carta stampata, quell’inchiostro ormai inusuale e sdato, le serve, a rimpolparne il lato significante. Operazione piena d’inquietudine anche per il lettore, perché lo obbliga a identificarsi, a fare suo alla seconda potenza un processo di lettura/scrittura della realtà, lo impegna a vedere non solo con gli occhi, ma con le parole.
E cos’è la città in questo sguardo che l’autrice ci presta? Nello Spleen di Milano, emerge l’aspetto trasfigurato di una città che nessuno più guarda, perché sembra non essere più in grado di stupire coi suoi luccichii. Vi trapela il cinismo dei luoghi di consumo che, da religione del moderno in Baudelaire, si fanno nell’iper-modernità della nostra scrittrice, smascherati illusionismi di contenitori per l’anima. In questo avvicendarsi di contenitori anonimi, spiccano invece i pilastri della storia che, unici, hanno ancora il potere di sorprendere. Il Duomo, il Palazzo della Ragione, San Satiro, San Bernardino alle ossa, fendono la poca nebbia giallastra rimasta a Milano quasi un remoto ricordo, a risvegliare l’anima dimenticata di spettatore, o a proporre enigmi.
L’antidoto al “nostro non sapere dove andare” non è più l’ivresse, ma il “perseverare”. L’Extravagant baudelairiano è sostituito qui da una lucida necessità di continuare a guardare per non perderne la facoltà, perché lo sguardo non si spenga per sempre nell’oblio di quella “liquidità” contemporanea di cui ci parlano Bauman e i sociologi contemporanei, dove tutto si confonde, tutto si consuma.
Ecco perché il Duomo è un ottimo salva-sguardo, fa fatica a svanire, lui e tutte quelle creature in pietra – i gargoyles – che lo abitano e resistono, animate chissà da quale atroce eterna missione o condanna.
Le icone della città contemporanea e anonima, attorno ai pochi monumenti nominabili e resistenti alla perdita della capacità di stupirsi, sono i Mc Donald, Calzedonia, Max Mara, i templi della globalizzazione consumistica, uguali in tutto il mondo. E dove, in tutto il mondo, fra gli stessi scaffali si cerca rifugio dalla pioggia e dal grigiore, consolandosi con i colori, i profumi, la schiuma del cappuccino, l’afrore delle patatine fritte made in USA.
Improvvisamente questo sguardo dell’autrice si fa filosofico: analizza la sensorialità esposta a infiniti ormai lontani e forse intollerabili. La differenza fra la vertigine della gravità e quella del guardare in alto ti espone alla legge della “distanza che non muta fra noi e il compimento”. Ed è lì che l’ “anelare alla terra” rimane insieme al precedente “perseverare”, l’unica via di sopravvivenza.
La città diviene l’unico contenitore dell’essere, perché non si sfaldi nell’infinito, nel fuori misura di una natura ormai sconosciuta e temuta. Lo “specchio dei precipizi” di quel fantastico, anzi quasi fantascientifico sguardo su Genova ne è la prova sconcertante.
Ma quale città? Non una città di persone, di soggetti. Una città di cose, dove i radi soggetti, quasi errori, lapsus del disegno urbano, incespicano nella loro desolata e silenziosa solitudine. Chi parla sono le cose, le statue… Loro, ancora, lanciano appelli, come le ossa dei morti di San Bernardino.
L’impatto con le cose è molto più rassicurante dell’impatto dell’Io con l’Altro. “Non ho mai avuto paura di perderMi. Ho sempre avuto paura di trovare, di trovare qualcuno che non eri tu, al tuo posto”. Le cose dipanano ragionamenti filosofici, fili significanti labirintici nel cui flusso di coscienza perdersi e ritrovarsi. L’Altro no! È più terribile delle statue sofferenti e delle loro ombre che ormai subiscono la forza di gravità e non possono risollevarsi. Solo i corpi, soprattutto se morti, non mentono mai.
Godetevi quindi Milano, finché potete, perché poi si penetra nell’abissale sfaldarsi delle relazioni umane. Sorge un Io che fa fatica a esserci, fronteggiando enigmi ben più irresolubili: il desiderio, il transfert, l’amore, l’irresistibilità di fronte all’illusorietà della seduzione. Questo Io inquieto che non trova risposte, ma formula domande, si assimila piuttosto alle statue senza parole con la loro bocca spalancata su enigmi che non si pone più nessuno.
E se c’è qualcuno, presumibilmente umano e vivo che se li pone e che riesce a fare ancora del “non-senso (…) un senso, anche, non solo una scappatoia”, rimane giustamente da chiedersi se non sia solo, se chi gli avrebbe potuto o dovuto stare vicino, nel frattempo, non si fosse addormentato. Così anche quella verità rimane obliata, mentre le pietre, eterne testimoni, ancora sono capaci di urlare.
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